Libertà di stampa e memoria dei cronisti uccisi da mafie e terrorismo, non status symbol

Michele Albanese: “Riscopriamo il giornalismo sano”

Michele Albanese, responsabile Fnsi per la Legalità (foto Giornalisti Italia)

REGGIO CALABRIA – Oggi, domenica 3 maggio, in concomitanza con la Giornata mondiale della libertà di stampa istituita dall’Onu, l’Italia celebra dal 2008 la Giornata della memoria dei giornalisti uccisi da mafie e terrorismo. A ricordarne il valore è Michele Albanese, giornalista calabrese che dal 2014 vive sotto scorta nella Piana di Gioia Tauro.
Consigliere nazionale Fnsi con delega ai progetti per la legalità, presidente del Gruppo Cronisti del Sindacato Giornalisti della Calabria, lavora per il Quotidiano del Sud, l’Ansa, ed intende lanciare un appello ai giovani colleghi affinché “nessuno dimentichi il sacrificio di chi ha perso la vita e di chi è costretto a vivere sotto scorta”.
«Innamoratevi della verità, ricercatela dappertutto. Costi quel che costi». Questo il messaggio di Michele Albanese. «La libertà di stampa intesa come capacità di analisi, di riflessione, di spunti finalizzati alla ricerca della verità dei fatti – afferma Albanese in un’intervista all’Adnkronos – è vitale per la democrazia e la libertà di un Paese».
«Questa giornata va ricordata perché le mafie – spiega Albanese – sono sempre più sofisticate. Cambiano pelle e mutano strategie, diventando pezzi di politica, di classe dirigente, grazie alla straordinaria capacità di rigenerarsi. L’informazione libera va tutelata perché è attaccata non solo dai contesti criminali, ma anche da chi ritiene che si possa comunicare senza bisogno di mediazioni. Il giornalismo sano e resiliente deve riscoprire la consapevolezza del proprio ruolo. Abbiamo il dovere deontologico di contrastare tutto ciò che è negativo in una società civile. In primo luogo le mafie che ne contaminano economia e politica».

Mauro De Mauro

Michele Albanese ricorda anche i cronisti assassinati in circostanze ancora da chiarire. «Il pensiero oggi va soprattutto ai 30 colleghi che dal secondo dopoguerra sono morti nel contrasto alle mafie».
«Una delle ipotesi formulate dopo l’uccisione di Mauro De Mauro, che all’epoca stava lavorando su presunte ingerenze della mafia nella morte del presidente dell’Eni, Enrico Mattei, – ricorda Albanese – era legata al golpe Borghese. Sul tentato colpo di Stato del “principe nero”, il cronista del giornale L’Ora di Palermo cui corpo dal 1970 non è mai stato trovato, sembrerebbe avesse scoperto degli intrecci con la criminalità organizzata. Dalle dichiarazioni dei collaboratori di giustizia emerge che Valerio Junio Borghese partecipò ad un summit della ‘ndrangheta l’anno precedente alla scomparsa di De Mauro, quando gli ambienti dell’estrema destra strinsero accordi con clan calabresi».

Ilaria Alpi

«Vicenda da non dimenticare oggi che la creazione di rapporti “grigi” tra i vari poteri, rischia di compromettere la nostra democrazia. Ottenere giustizia per la morte di De Mauro significa ricostruire momenti bui della storia italiana. Questo vale anche per il mistero che aleggia dal 1994 sul duplice omicidio della giornalista Ilaria Alpi e dell’operatore Miran Hrovatin a Mogadiscio. C’è chi cerca la verità e chi prova a nasconderla. Bisogna continuare ad indagare ed analizzare i fatti. Loro sono un punto di riferimento per tutti i giornalisti».
Michele Albanese racconta, inoltre, le difficoltà dei cronisti sottoposti a programmi di protezione. «Siamo oltre 20 giornalisti sotto scorta in Italia. Per tanti altri – spiega Albanese – sono invece scattate misure di tutela diverse. Ciò testimonia come il coraggio di fare libera informazione provoca ritorsioni imponenti. Sotto scorta si vive malissimo, non è un vantaggioso status symbol».
«È tutto limitato: i rapporti personali, il lavoro, la libertà. A chi mi chiede come affronto il lockdown – ironizza il giornalista Albanese – ricordo che da sei anni sono in una sorta di quarantena. È un’esistenza a cui credo sia importante approcciarsi con dignità, dando testimonianza di responsabilità e correttezza anche nell’uso della scorta che ovviamente limita i colloqui con le fonti. L’amore per la mia terra, per la mia gente e per la mia professione, mi ha spinto a restare».
«In Calabria – incalza Albanese – si sta giocando la più grande battaglia nella lotta alle mafie, proprio per il ruolo che la ‘ndrangheta riveste nel nostro Paese. Una holding criminale che si è infiltrata dappertutto ed ha letteralmente conquistato il mondo. Restare qui, nonostante limitazioni e rischi, significa continuare a battersi per una terra libera e dare voce alla stragrande maggioranza dei calabresi che ritengono la ‘ndrangheta un nefasto tumore da estirpare. Se c’è qualcuno che deve andare via dalla Calabria sono loro, non le persone perbene e libere». (adnkronos)

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