Il Cnog non è il Parlamento ma insiste suI papocchio dell’art. 34. Nuovo ddl alla Camera

I pubblicisti non sono figli di un dio minore

Pierluigi Roesler Franz (consigliere nazionale dell’Ordine dei giornalisti e della Figec Cisal) e Carlo Bartoli (presidente del Consiglio nazionale del Cnog)

ROMA – Il 3 maggio scorso è stato stampato alla Camera dei deputati il disegno di legge n. 989, presentato il 14 marzo 2023 d’iniziativa del deputato Mauro D’Attis di Forza Italia, recante “Disposizioni concernenti la composizione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti”, che è incentrato sul riequilibrio dell’attuale rappresentanza dei pubblicisti nel Cnog che sarebbe viziata di incostituzionalità.

Mauro D’Attis (Forza Italia)

Basti pensare al fatto che Lazio e Lombardia insieme, con circa 50.000 pubblicisti iscritti totali, rappresentano di fatto la metà dei giornalisti italiani, ma sono rappresentati nel Cnog da appena 2 consiglieri nazionali (uno a testa).
A mio parere la presentazione ufficiale di questa proposta di legge, tendente ad una formale modifica parziale della legge n. 69 del 1963, è molto importante e dovrebbe rimodulare e ricalibrare tutte le iniziative di riforma attualmente all’esame del Cnog a carattere interpretativo e/o normativo per l’automatico effetto “calamita”, cioè la cosiddetta “vis attractiva” attribuita di fatto in Parlamento a questo provvedimento in tema di modifiche riguardanti sempre – anche se in altri punti e sotto altri aspetti – la stessa normativa che vengano presentate successivamente, come la riforma della legge istitutiva dell’Ordine di cui si è iniziato a discutere l’altro ieri e come i nuovi criteri interpretativi dell’art. 34 della legge n. 69 del 1963 dopo le controverse ed altalenanti interlocuzioni senza precedenti con il Ministero della Giustizia.
A mo’ di esempio, poiché non rientra assolutamente nelle competenze del Cnog il potere di legiferare, ma esclusivamente delle Camere come prevedono gli articoli 70 e 117 della Costituzione, non credo che nella bozza di riforma tuttora all’esame del Cnog si possa ormai più prescindere dall’esistenza del citato disegno di legge n. C. 929.
Di conseguenza non possono più viaggiare separatamente e in parallelo e addirittura con diverse tempistiche modifiche riguardanti i pubblicisti e modifiche riguardanti i giornalisti professionisti, tenendo anche conto delle rilevanti risorse economiche derivanti proprio dalle quote dei circa 74 mila pubblicisti senza le quali gli Ordini regionali e lo stesso Cnog non potrebbero praticamente più sopravvivere.
Allo stesso modo non si possono più dettare nuovi criteri interpretativi/innovativi dell’articolo 34 della legge n. 69 del 1963 che per la quarta volta che sostituiscono ex novo quelli che erano stati in precedenza definiti dal Cnog con le delibere del 16-17 marzo 1988, del 12 luglio 1991 e del 5 luglio 2002.
Per il rispetto dovuto alle Istituzioni della Repubblica da un ente pubblico come il Cnog e da ciascuno dei suoi componenti, tutti sottoposti alla vigilanza del ministero della Giustizia, e per rispettare pienamente la Costituzione non si deve più procedere a colpi di maggioranza, ma occorre tendere il più possibile a scelte unanimi o condivise almeno dalla quasi totalità dei componenti del Cnog, come ha peraltro proposto ieri con grande saggezza e buon senso il consigliere Markus Perwanger.

Markus Perwanger

Ritengo, quindi, opportuno riproporre quanto ho affermato durante il mio intervento nella seduta di ieri del Consiglio Nazionale di tener “congelati” – soprattutto per la loro pratica e obiettiva difficoltà di attuazione uniforme da parte dei Consigli regionali dell’Ordine, essendosi determinato quello che giornalisticamente viene definito in genere dagli addetti ai lavori come un vero “papocchio o guazzabuglio giuridico” – i nuovi criteri interpretativi dell’art. 34 della legge n. 69 del 1963 (praticantato giornalistico), approvati a maggioranza dal Cnog il 28 marzo 2023 con effetto dal 1° aprile 2023 e, purtroppo, poi ribaditi ieri, inserendoli nel più breve tempo possibile in una proposta di legge del Cnog possibilmente all’unanimità o quasi – cioè, comunque senza spaccature, né divisioni – da far presentare anche dal Governo e/o da singoli parlamentari alla Camera e/o al Senato.
A tal proposito sarebbe opportuno verificare se è ancora in vigore il Decreto del Ministro dell’Università e della Ricerca Scientifica e Tecnologica dell’11 aprile 1996 “Modificazioni all’ordinamento didattico universitario relativamente al corso di laurea in scienze della comunicazione”, pubblicato nella Gazzetta Ufficiale n. 140 del 17 giugno 1996, che fu emanato proprio dopo aver “sentito l’Ordine dei giornalisti”.
In base a tale decreto coloro che frequentano un corso di laurea in giornalismo possono essere iscritti nel Registro dei Praticanti se nell’ultimo triennio trascorrono periodi di formazione (attività di laboratorio e di esercitazione, seminari professionali e stages di formazione) per la durata complessiva di diciotto mesi. Gli stages nelle redazioni di quotidiani, di periodici, di agenzie di stampa e di radio-telegiornali di emittenti nazionali, regionali o provinciali dovranno svolgersi in regime di Convenzione.
Infatti, se tale normativa fosse ancora in vigore non potrebbe essere ignorata, ma, anzi, dovrebbe essere riportata anche nei testi contenuti nel nostro volume del Massimario del Cnog per il 2023.
Si dovrebbe, poi, far valutare con particolare attenzione se effettivamente i nuovi criteri interpretativi dell’art. 34 della legge n. 69 del 1963 introducano o meno modalità di accesso al Registro dei praticanti totalmente difformi e contrastanti con la legge vigente (articoli 33, 34 e 35 della legge 3 febbraio 1963 n. 69 e articoli 34, 35, 36 e 37 del DPR 4 febbraio 1965 n. 115) e siano o meno in linea con quanto riportato in tema di norme che disciplinano l’accesso all’Albo nel punto 7 della motivazione della sentenza n. 11 del 21-23 marzo 1968 della Corte Costituzionale, che ha dichiarato non fondate le questioni di legittimità costituzionale concernenti gli articoli 29, 33, 34 e 35 della legge 3 febbraio 1963 n. 69, sollevate dall’ordinanza 5 giugno 1967 del pretore di Catania in riferimento agli artt. 3 e 21 della Costituzione.
Che sarebbe, infatti, successo 55 anni fa se i giudici della Consulta si fossero trovati di fronte, per stabilirne l’eventuale legittimità, questi nuovi criteri interpretativi dell’art. 34 della legge 3 febbraio 1963 n. 69 (accesso al praticantato giornalistico)? Non li avrebbero, forse, bocciati proprio perché avrebbero capovolto principi cardine di questa normativa e in particolare, gli artt. 35 e 36 del D.P.R. 4 febbraio 1965 n. 115? Tali norme prevedono che il “Registro dei praticanti di cui all’art. 33 della legge, che è istituito presso ogni Ordine regionale o interregionale, deve contenere il titolo in base al quale è avvenuta l’iscrizione, nonché la pubblicazione o servizio giornalistico presso il quale viene svolta la pratica giornalistica” e che “Coloro che intendano essere iscritti nel registro dei praticanti debbono, all’inizio delle attività previste dall’art. 34 della legge, inoltrare al Consiglio regionale o interregionale di residenza domanda di iscrizione, allegando oltre i documenti previsti dal secondo comma dell’art. 33 della legge, la dichiarazione del direttore dell’organo di stampa comprovante l’effettivo inizio della pratica” e che “Il direttore della pubblicazione o del servizio giornalistico è tenuto, a richiesta dell’interessato, al tempestivo rilascio della dichiarazione di cui al primo comma”.
Da ultimo i nuovi criteri interpretativi dell’articolo 34 della legge n. 69 del 1963, approvati dal Cnog, sembrerebbero, peraltro, non allineati neppure al penultimo comma dell’articolo 36 del D.P.R. 4 febbraio 1965 n. 115 con riferimento all’art. 33 della legge 3 febbraio 1963 n. 69, perché potrebbero confliggere con il praticantato giornalistico ottenuto dopo la positiva conclusione di Master post universitari da parte di apposite Scuole preventivamente autorizzate dall’Ordine per i quali è richiesto obbligatoriamente il possesso del titolo di laurea di durata almeno triennale.
L’articolo 33 della legge 3 febbraio 1963 n. 69 prevede, infatti, che: «Coloro che intendano essere iscritti nel registro dei praticanti debbono, all’inizio delle attività previste dall’articolo 34 della legge, presentare il titolo di studio previsto dall’ultimo comma dell’articolo 33 della legge oppure dichiarare nella domanda che intendono sostenere l’esame di cultura generale di cui al quarto comma del medesimo articolo 33”. (giornalistitalia.it)

Pierluigi Roesler Franz

 

CAMERA DEI DEPUTATI
PROPOSTA DI LEGGE n. 989 d’iniziativa del deputato D’ATTIS

Disposizioni concernenti la composizione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti Presentata il 14 marzo 2023

Onorevoli Colleghi!
Il decreto legislativo 15 maggio 2017, n. 67, adottato dal Governo in attuazione dell’articolo 2, comma 4, della legge 26 ottobre 2016, n. 198, ha modificato la legge 3 febbraio 1963, n.69, recante «Ordinamento della professione del giornalista», operando una revisione nella composizione e nelle attribuzioni del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti. In particolare, i consiglieri nazionali sono passati da 156 (in un rapporto di circa 1 a 1 tra professionisti e pubblicisti) a 60, in un rapporto di 2 a 1 tra giornalisti professionisti (40) e pubblicisti (20), con la perdita secca di 20 rappresentanti dei pubblicisti e con le possibili lesioni di diritti di seguito descritte. Il decreto legislativo n.67 del 2017 ha determinato, in modo improvviso e irrazionale, l’annullamento del «diritto di tribuna» acquisito dai pubblicisti in cinquantacinque anni di applicazione della legge n.69 del 1963, portandoli ad una sproporzionata e ingiusta minoranza nel Consiglio medesimo. Il mestiere del giornalista è cambiato.
Migliaia di giornalisti sono ormai formalmente pubblicisti, ma vivono di giornalismo (restano pubblicisti perché non viene data loro l’opportunità di svolgere la pratica, oppure preferiscono questa collocazione per non vedere disdetto il proprio contratto di collaborazione perché il datore di lavoro teme cause o rivendicazioni). Il nuovo meccanismo di elezione ha suscitato viva contrarietà nei pubblicisti italiani e presenta gravi aspetti critici.
Il primo è costituito dalla violazione del diritto di rappresentanza. Una regione rimane infatti senza un rappresentante pubblicista eletto nell’ordine regionale, poiché il pubblicista rappresentante della minoranza linguistica nel Consiglio nazionale prende il posto del pubblicista che ha riportato il minor numero di voti tra i venti giornalisti pubblicisti eletti nei venti ordini regionali (articolo 16, quinto comma, della legge n.69 del 1963, introdotto dall’articolo 1, comma 2, del decreto legislativo n.67 del 2017).
Rilevante al riguardo è il parere di un legale esperto e accreditato nella categoria dei giornalisti, secondo cui gli eventuali profili di incostituzionalità delle disposizioni normative contenute nel decreto legislativo n.67 del 2017 – in particolare quello relativo alla violazione del principio di ragionevolezza e dei princìpi espressi nella legge di delega, in ordine al combinato disposto dell’articolo 1, commi 1 e 2, per effetto del quale si verifica che in seno al Consiglio nazionale un rappresentante pubblicista di minoranza linguistica, eletto nel collegio unico nazionale, prenda il seggio del rappresentante pubblicista, eletto su base regionale che abbia riportato il minor numero di voti – potranno essere fatti valere solo a seguito di un eventuale ricorso proposto al giudice competente dal giornalista pubblicista, eletto su base regionale e costretto a cedere il proprio seggio al rappresentante della minoranza linguistica eletto in sede di collegio unico nazionale.
Il secondo aspetto critico risiede nella disparità di rappresentanza tra ordini regionali che hanno un numero di iscritti molto differenziato, che penalizza le regioni più importanti (articolo 16, commi secondo, terzo e quarto, della legge n. 69 del 1963, come sostituiti dall’articolo 1, comma 1, del decreto legislativo n. 67 del 2017). Il nuovo numero di venti rappresentanti dei pubblicisti, complessivamente previsto dalla nuova normativa, non è con tutta evidenza sufficiente a coprire le ventuno posizioni previste dalla stessa legge (i venti pubblicisti, eletti nei venti collegi regionali, e un rappresentante pubblicista di minoranza linguistica in seno al Consiglio nazionale, eletto nel collegio unico nazionale).
Ne deriva, ad esempio, il paradosso che gli ordini della Lombardia e della Valle d’Aosta hanno lo stesso numero di rappresentanti pubblicisti, cioè uno, malgrado il grande divario nel numero di iscritti (alla data dell’adozione del decreto legislativo, 13.924 contro 246). Lazio e Lombardia insieme, con circa 50.000 iscritti totali, rappresentano di fatto la metà dei giornalisti italiani. Un terzo aspetto riguarda la violazione del principio «no taxation without representation», per l’identica quota di iscrizione dovuta dai giornalisti professionisti e dai pubblicisti, che porta i pubblicisti a sostenere oltre il 70 per cento delle spese di mantenimento dell’ordine, a fronte di una rappresentanza di un solo pubblicista per ogni due professionisti. Infine, si rileva la violazione del diritto di eguaglianza tra i candidati ai consigli regionali e quelli al Consiglio nazionale.
L’articolo 16, secondo comma, della legge n.69 del 1963, come sostituito dall’articolo 1, comma 1, del citato decreto legislativo n.67 del 2017, prescrive, solo per il Consiglio nazionale, che i candidati siano titolari di una posizione previdenziale attiva presso l’Istituto nazionale di previdenza dei giornalisti italiani (INPGI), penalizzando così anche i pensionati e tutti i giornalisti della pubblica amministrazione e del settore privato iscritti presso l’Istituto nazionale della previdenza sociale. La deliberazione del Consiglio nazionale del 9 luglio 2014, «Linee di riforma dell’Ordine dei giornalisti» – il pensiero quindi degli stessi interessati professionisti e pubblicisti insieme –, aveva previsto: «Il Consiglio nazionale dell’Ordine è formato da 90 componenti secondo un rapporto di rappresentanza fissato in 3 a 2 tra gli iscritti all’Elenco dei professionisti e gli iscritti nell’Elenco dei pubblicisti».
Orientamento inspiegabilmente ignorato in sede di approvazione della legge di delegazione legislativa (legge n.198 del 2016). Il metodo esponenziale previsto dalla citata legge n.69 del 1963 fino al 2017, che comportava la crescita differenziata del numero dei rappresentanti dei professionisti e dei pubblicisti al crescere degli iscritti, anche se penalizzante per i pubblicisti, ha comunque garantito loro nel tempo una sorta di «diritto di tribuna». Il metodo fisso introdotto dal recente decreto legislativo relega la rappresentanza dei pubblicisti (che costituiscono la categoria maggioritaria) a un ruolo marginale.
Come detto, il Consiglio nazionale, prima della recente riforma, era composto da 156 membri, in un rapporto di circa 1 a 1 tra professionisti e pubblicisti, a fronte però di circa 29.000 professionisti e di circa 74.000 pubblicisti, che pagano tutti la stessa quota di iscrizione annuale (100 euro).
Secondo l’ultimo rapporto del gruppo di lavoro «Libertà di stampa, diritto all’informazione» sulla professione giornalistica, il 12 per cento dei giornalisti non ricava alcun reddito; 8 su 10 sono professionisti freelance e guadagnano meno di 10.000 euro l’anno. Sono migliaia i pubblicisti costretti a restare tali dal mercato. Senza di loro i giornali dovrebbero ridurre il numero delle pagine e le radio e le televisioni i notiziari. È da considerare, inoltre, che una sentenza della Corte costituzionale (n.98 del 1968) aveva equiparato il pubblicista al giornalista professionista per quanto concerneva la possibilità di dirigere un giornale. Tale sentenza aveva consentito, a suo tempo, a un pubblicista di dirigere il Corriere della Sera.
È inoltre cresciuto, in alcuni settori del giornalismo italiano, l’interesse verso l’abolizione dell’Ordine dei giornalisti, soprattutto dopo l’approvazione della legge 14 gennaio 2013, n.4, recante disposizioni in materia di professioni non organizzate. Essa è una legge fortemente innovativa, di respiro europeo, che regolamenta le associazioni professionali non organizzate in ordini, collegi o albi, in maniera efficace (con valorizzazione di competenze, regole deontologiche, formazione permanente, codice di condotta e sanzioni per le sue violazioni, senza rappresentanza esclusiva e scopo di lucro eccetera) ponendole sotto il controllo del Ministero delle imprese e del made in Italy, previa iscrizione in un apposito elenco gestito dallo stesso Ministero.
Considerato strategicamente rilevante, nell’interesse del Paese, il mantenimento di un comune sentire tra gli appartenenti ai due elenchi dell’Albo dei giornalisti (professionisti e pubblicisti), messo in pericolo da alcune delle scelte sopra descritte, appare doveroso approvare alcune ulteriori modifiche alla legge n. 69 del 1963, rettificando taluni aspetti dell’intervento operato con il decreto legislativo n. 67 del 2017.
Pertanto, per le esposte considerazioni, con la presente proposta di legge si prevede di eliminare i profili di possibile incostituzionalità connessi alle citate disposizioni, ormai percepite come violazioni di diritti.
L’articolo 1 disciplina quindi una più equilibrata rappresentanza delle due categorie nel Consiglio nazionale, eliminando altresì il requisito di eleggibilità del possesso di una posizione previdenziale attiva presso l’INPGI.
L’articolo 2 contiene le disposizioni transitorie e la clausola di invarianza finanziaria.

PROPOSTA DI LEGGE

Art. 1. (Modifiche all’articolo 16 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, concernenti la composizione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti)

1. All’articolo 16 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, sono apportate le seguenti modificazioni:
a) i commi secondo, terzo e quarto sono sostituiti dai seguenti:
«Il Consiglio nazionale è composto da sessantasei membri, di cui quaranta iscritti nell’elenco dei professionisti e ventisei iscritti nell’elenco dei pubblicisti. Essi sono eletti dagli iscritti agli ordini regionali e interregionali nei rispettivi elenchi. Per ciascuna categoria, nell’ambito del numero complessivo dei membri a essa attribuiti ai sensi del primo periodo, è eletto almeno un rappresentante delle minoranze linguistiche riconosciute. Ai fini dell’elezione, ciascun ordine regionale o interregionale costituisce collegio elettorale. Gli ordini delle province autonome di Trento e di Bolzano, ove istituiti, costituiscono un unico collegio elettorale. Nessun iscritto negli elenchi può votare o essere eletto in più di un collegio. Ciascun ordine regionale o interregionale elegge un consigliere nazionale iscritto all’albo nell’elenco dei professionisti. Fermi restando i limiti numerici di cui al secondo comma e salva la riserva di un posto ivi stabilita per la rappresentanza delle minoranze linguistiche, ai collegi elettorali corrispondenti agli ordini regionali o interregionali che, al 31 dicembre dell’anno precedente alle elezioni, hanno un numero di giornalisti professionisti iscritti superiore a mille è assegnato, per la categoria dei giornalisti professionisti, un seggio ulteriore ogni mille professionisti iscritti o frazione di mille. L’ultimo seggio rimanente, nel rispetto dei predetti limiti e della rappresentanza linguistica, è attribuito all’Ordine regionale o interregionale con la frazione di mille più elevata. Nessun ordine regionale o interregionale può ottenere più di un quinto dei rappresentanti dei giornalisti professionisti. Ciascun ordine regionale o interregionale elegge un consigliere nazionale iscritto all’albo nell’elenco dei pubblicisti. Fermi restando i limiti numerici di cui al secondo comma e salva la riserva di un posto ivi stabilita per la rappresentanza delle minoranze linguistiche, ai collegi elettorali corrispondenti agli ordini regionali o interregionali che, al 31 dicembre dell’anno precedente le elezioni, hanno un numero di pubblicisti iscritti superiore a cinquemila è assegnato, per la categoria dei pubblicisti, un seggio ulteriore ogni cinquemila pubblicisti iscritti o frazione di cinquemila. L’ultimo seggio rimanente, nel rispetto dei predetti limiti e della rappresentanza linguistica, è attribuito all’ordine regionale o interregionale con la frazione di cinquemila più elevata. Nessun ordine regionale o interregionale può ottenere più di due seggi ulteriori mediante la ripartizione di cui al secondo e al terzo periodo»;
b) il sesto periodo del quinto comma è soppresso.

Art. 2. (Disposizione transitoria e clausola di invarianza finanziaria)

1. Entro tre mesi dalla data di entrata in vigore della presente legge si procede all’integrazione della composizione del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti in carica alla medesima data di entrata in vigore, secondo le disposizioni dei commi secondo, terzo e quarto dell’articolo 16 della legge 3 febbraio 1963, n. 69, come sostituiti dall’articolo 1 della presente legge.
2. Dall’attuazione delle disposizioni della presente legge non devono derivare nuovi o maggiori oneri a carico della finanza pubblica. (giornalistitalia.it)

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