Al processo di Ragusa il pentito Rosario Avila ha accusato il capomafia di Vittoria

Boss Ventura “con Borrometi ce l’ha a morte”

Vittoria

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RAGUSA – Il collaboratore di giustizia Rosario Avila, genero del boss di Vittoria Giambattista Ventura, ha confermato di avere assistito alle sue minacce rabbiose nei confronti del giornalista dell’Agi Paolo Borrometi, per le quali il capomafia è sotto processo a Ragusa.
“Ti scippo la testa anche dentro la questura”, era esploso, perché avrebbe scritto degli affari di famiglia che vedevano coinvolto lo stesso Ventura come socio occulto di una agenzia di pompe funebre – “ma lo sapevano tutti a Vittoria che era vero”, dice Avila – e di passate condanne per il 416 bis. “È persona capace di andare oltre?” gli ha chiesto l’avvocato Roberto Sisto: “Sì, è capace di andare oltre, è un mio pensiero”, ha risposto Avila, pentito dall’ottobre 2015, che frequentava spesso la casa di Ventura e che, legato alle cosche Piscopo-Emanuello di Gela, dice di essere cresciuto assieme al figlio di Ventura, Angelo. “Lui, Giambattista Ventura, quando si arrabbia perde la ragione, con Borrometi ce l’ha a morte”.
Il pentito ha parlato nel corso della seconda udienza del processo contro il reggente del clan Carbonaro-Dominante di Vittoria, il quale deve rispondere di violenza privata e minacce aggravate dal metodo mafioso rivolte a Borrometi.
Sono stati sentiti in collegamento anche i collaboratori Giuseppe Pavone, Giuseppe Doilo. L’Ordine dei giornalisti nazionale e di Sicilia, la Federazione nazionale della stampa e il Comune di Vittoria sono parte civile.
Pavone ha raccontato i rapporti criminali in città, prima della sua detenzione e dopo, degli “stiddari” e del fratello di Giambattista Ventura, Filippo. Ha riferito anche delle opposizioni di Filippo e Giambattista Ventura alla spartizione tra Cosa nostra e Stidda delle estorsioni a Vittoria. Ha confermato di conoscere Giambattista Ventura, presentatogli da “Mario Campailla, referente della stidda a Comiso” e glielo presentò come «u’zio», quello che comanda a Vittoria”.
Giuseppe Doilo ha detto di essere il “figlioccio” di Giambattista Ventura: mentre Ventura era in carcere era lui con altre persone a provvedere al mantenimento, a portare a casa della “madrina”, la moglie di Giambattista Ventura, i soldi che servivano ai viaggi e al mantenimento in carcere. “Ho saputo – dice – mentre ero in carcere, che tre persone stavano facendo estorsioni; mi informai sul loro conto facendolo sapere a Giambattista Ventura e mi mandò a dire che erano a posto con lui”, sottolinea spiegando che significa che erano “autorizzate a farlo”. L’udienza si è conclusa con l’acquisizione di altri documenti. Prossima udienza il 4 aprile. (Agi)

 

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