Giancarlo Tartaglia ricostruisce opere e azioni dell’inventore del giornalismo moderno

Alberto Bergamini, “Il giornale è il mio amore”

Giancarlo Tartaglia (foto Giornalisti Italia)

ROMA – Se oggi i giornalisti si affannano alla ricerca della notizia più fresca e interessante, che possa far vendere qualche copia in più o registrare più “clic”, la “colpa” è di Alberto Bergamini, “inventore del giornalismo moderno”. È l’immediata, sintetica, eppure esaustiva definizione che ne dà Giancarlo Tartaglia sulla copertina del suo ultimo libro “Il giornale è il mio amore” (All Around edizioni, 275 pagine, 15 euro) dedicato, appunto, a Bergamini, tra le figure più significative del giornalismo italiano del primo ’900.
Una ricostruzione storica e capillare, quella che il direttore della Federazione nazionale della stampa italiana, nonché segretario generale della Fondazione sul giornalismo “Paolo Murialdi”, imbastisce delle opere e delle azioni del giornalista e politico vissuto in un’epoca, a cavallo tra il Regno e il fascismo, che non ha fatto sconti agli uomini dall’animo e dalle idee liberali.
Nato a San Giovanni in Persiceto (Bologna) il 1 giugno 1871, non ancora ventenne, Alberto Bergamini inizia a coltivare la passione per il giornalismo. Collabora con il Resto del Carlino di Bologna, è redattore e direttore al Corriere del Polesine di Rovigo (espressione del gruppo liberale-monarchico) e corrispondente del Corriere della Sera di Milano. Nel 1898 viene assunto all’ufficio di corrispondenza romano del Corriere della Sera, guidato da Michele Torraca, e nel 1901 decide di fondare e dirigere Il Giornale d’Italia, quello che, “in pochi anni, si sarebbe affermato come un vero e proprio successo editoriale, superando nella tiratura e nelle vendite tutti gli altri quotidiani romani, da Il Messaggero a La Tribuna”.
Partendo dall’imprescindibile collocazione biografica e contestuale, Giancarlo Tartaglia passa, quindi, ad analizzare le storiche imprese del nostro – per ben tre volte presidente della Federazione nazionale della stampa italiana, l’ultima, nel 1956, quando «aveva ormai 85 anni, ma accettò quella nomina con entusiasmo con il desiderio e all speranza volenterosa di “corrispondere alla fiducia dei colleghi”» – a cui riconosce un ruolo rivoluzionario.
Bergamini – scrive Tartaglia, con la penna dello storico e la sagacia di chi non ama i giri di parole, quanto l’andare dritto al punto – “rivoluzionò il modo di fare giornalismo e ancorché il suo giornale fosse espressione di una corrente politica, quella che faceva capo a Sonnino e Calandra, fu sempre, prima di tutto, un giornalista e considerò la sua missione non quella di indottrinare il pubblico, bensì quella di dargli informazioni, tante e veloci”.
Sorvolando, non senza difficoltà, sul ruolo politico che Bergamini, liberale convinto e monarchico ad un tempo, ebbe nelle vicissitudini del Regno (di cui fu senatore, nominato da Giolitti) e dell’era fascista (un’aggressione a colpi di pugnale lo indusse a lasciare la direzione del suo Giornale d’Italia e Roma, nel 1924, mentre più avanti, arrestato dai tedeschi, finì in carcere) vale la pena soffermarsi sulle pagine che raccontano i frutti della sua mente instancabile e proiettata in avanti. È ad Alberto Bergamini che si deve la nascita della terza pagina (pubblicata per la prima volta il 10 dicembre 1901), la pagina della cultura per antonomasia, che “contribuì largamente – scrive Tartaglia – alla diffusione del giornale soprattutto nelle province meridionali”, così che “il professionista mancato oppure il professore, il magistrato ai primi passi in carriera, quando mettevano gli occhi su quella terza pagina, si sentivano trasportati lontano dalle misere cure paesane nella capitale, dove forse avevano trascorso gli anni universitari”.
È con la terza pagina che compaiono, sul giornale, fotografie e illustrazioni. È, ancora, con la terza pagina che viene introdotto l’elzevir, l’elegante carattere tipografico – voluto dallo stesso Bergamini – inventato da una famiglia di stampatori ed editori olandesi. “Da allora l’articolo di apertura della terza pagina, imitata in seguito da tutti gli altri giornali, prese il nome di elzeviro”.
Ben si comprende, da questi frammenti, la ricchezza di particolari, di momenti, di informazioni preziose che, con la sua consueta e certosina pazienza, Giancarlo Tartaglia ha prima raccolto – un plauso è d’obbligo all’instancabile moglie Alessandra, che ha percorso, ancora una volta, e “con amorevole assidua collaborazione”, archivi e biblioteche alla ricerca di articoli e documenti – e poi assemblato, con un linguaggio chiaro e scorrevole. Il risultato è un lavoro che “intende ripercorrere tutte le tappe della lunga presenza giornalistica e politica di Alberto Bergamini, evitando di cadere in una ricostruzione agiografica e mettendone in evidenza luci, ombre, intuizioni e anche errori di valutazione, inevitabili per chiunque sia chiamato a compiere scelte importanti”. (giornalistitalia.it)

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