Nostra intervista al giornalista calabrese che ieri sera ha presentato il suo “Nero di seppia”

Gregorio Corigliano e il suo taccuino da marinaio

Gregorio Corigliano

REGGIO CALABRIA – “Nero di seppia, dai taccuini di un giornalista seduto in riva al mare” (Pellegrini Editore, 224 pagine, 15 euro), è il libro in cui il giornalista Gregorio Corigliano racconta sé stesso e la sua vita da “marinaio”. In questa intervista a Giornalisti Italia lo fa con una delicatezza inusitata, con un linguaggio d’altri tempi, che trasuda di nostalgia, di emozioni per le cose perdute, di ricordi atavici forti, di leggende e di novelle sempre attuali, ma lo fa soprattutto con un garbo ed un “senso di rispetto” verso il mare, che ha segnato profondamente la sua vita:

Pino Nano e Gregorio Corigliano

«È stato zio Nino a farmi amare il mare. Non potrò mai dimenticarlo. Perché sono nato, tantissimi anni fa a venti-venticinque metri dal mare. Tanto distava la casa dei miei genitori dal Tirreno. Mi affacciavo, quando ero più grandicello, e dalla finestra ammiravo il mare. Lo vedevo, lo respiravo, lo gustavo».
Gregorio Corigliano, ex inviato speciale ed ex caporedattore del TG Regionale di Rai Calabria, ha presentato il libro, ieri sera a Reggio Calabria, nell’ambito degli appuntamenti organizzati nella sede dell’Associazione Culturale Le Muse – Laboratorio delle Arti e delle Lettere, presieduta dal giornalista Giuseppe Livoti. Padroni di casa Orsola Latella, vicepresidente dell’Associazione Muse e già dirigente scolastico, e Oreste Arconte, giornalista e presidente dell’Associazione Nuovo Giangurgolo.
Presente al completo anche il Laboratorio di Lettura Interpretativa diretto da Clara Condello, Mimma Conti, Adele Leanza, Antonella Mariani e Rosaria Livoti. L’occasione è servita per una rilettura pubblica dell’ultimo libro del giornalista calabrese, in cui Gregorio Corigliano racconta la sua vita in riva al mare, nella sua casa paterna di San Ferdinando di Rosarno, «perché è da qui che è nato tutto il resto».
Figlio del mare in tutti i sensi, perché figlio di un uomo e di un intellettuale, il professore Antonino Corigliano, che amava egli stesso così tanto il mare da essersi letteralmente dimenticato di lui, che proprio quel giorno stava per venire alla luce: «Quando sono nato, mio padre era a mare. Era andato a pesca. Lo sapeva bene che i giorni del parto si erano compiuti. Pur nondimeno il mare per lui era una calamita, d’estate. Non riusciva a non raggiungere la spiaggia, d’estate e di inverno. Era più forte di lui. Quando è tornato io ero già nato, ed ero il primo figlio. …Sono nato, alle sette del mattino, due ore dopo che lui era andato a mare. Quando è tornato, felice e contento perché aveva pescato quattro seppie, ha avuto la sorpresa, che lo ha mandato in estasi, di trovarmi accanto a mia madre. Ero nato».

Tommaso Labate

215 pagine, una prefazione di Tommaso Labate (notista politico del Corriere della Sera), una post fazione di Agostino Pantano (inviato dell’emittente regionale LaCnews 24), 34 capitoli diversi, tutti pezzi di storia calabrese, ritratti coloriti e ammalianti di una generazione e di un tempo ormai lontani, ma pieni di amore per quegli anni e per quelle traversie, dalla nascita alla prima elementare, poi le medie, gli anni del liceo, l’Università a Messina, i primi viaggi all’estero, l’abbraccio mortale del giornalismo, e poi ancora il primo giorno di assunzione alla Sede Rai della Calabria, era il 24 maggio del 1982, azienda di cui è stato anche caporedattore, e i mille successi legati al suo lavoro quotidiano, con tutto quello che ne deriva dall’avere la fortuna di fare per mestiere e per passione l’inviato speciale di una grande e meravigliosa azienda pubblica come la Rai.
Una delle pagine più struggenti di questo suo racconto di vita è il momento in cui suo padre gli regala la sua prima macchina: «La mia prima macchina, ricordo che andammo, con mio padre e con Ciccio, all’Icar di Gioia Tauro e Sandro Benedetti mi consegnò l’unica Fiat 500 che aveva, azzurra e, ahimè, senza sedili ribaltabili… allora indispensabili».

Agostino Pantano

È l’inizio della grande avventura nel mondo del giornalismo: «Il primo ed unico sequestro di persona avvenuto a San Ferdinando, quello di Franco Bagalà. Una prigionia di dodici giorni. Del riscatto non ho mai saputo alcunché di ufficiale. Con il grande Gigi Malafarina, facciamo, con mia grande soddisfazione, i pezzi a due firme sulla Gazzetta del Sud. Quale onore!». Ma è chiaro che San Ferdinando è solo una parentesi della sua vita futura, costellata di incontri importanti e soprattutto di amici influenti e di grandi giornalisti. È il caso di Franco Bucarelli, forse il più grande cronista di nera che la Rai abbia mai avuto, dallo stile irripetibile e dalle mille risorse professionali. Gregorio Corigliano lo ricorda in questo modo: «È proprio alla partenza per Istanbul che conosco il giornalista che più di tutti, in assoluto, sarà il mio mentore, il mio amico non calabrese più affettuoso, il mio consigliere, il mio maestro, anche di vita: Franco Bucarelli, inviato speciale del Gr2 dell’epoca. Quanti consigli, quante spinte ideali, quante esperienze con lui, da Bangkok a Tokio, da Malta a Copenaghen. L’ultima a maggio 2019 a conoscere Cracovia e dintorni, il regno di Papa Giovanni Paolo II. Un’esperienza unica. Anche di questa sarò grato a Franco tutta la vita».

Franco Bucarelli

Il viaggio forse più emozionante per lui fu quello negli Stati Uniti: New York, la Grande Mela, la Little Italy, il Ponte di Brooklyn, la Statua della Libertà, il Grande museo di Ellis Island, e qui una nuova scoperta della sua vita, la più inattesa: «Non ci crederete, ma è solo nel 1970 che ho conosciuto altri tre Gregorio Corigliano, i figli dei miei zii. Nessuno allora era mai venuto in Italia, men che meno in Calabria. Solo due di loro, ma negli anni ’90. A mala pena conoscevano un po’ di dialetto calabrese».
Emigrati tra emigrati, emigranti tra emigranti, alla fine anche lui ha speso da emigrato tutta la sua vita lontano da San Ferdinando di Rosarno, il paesello di cui il libro trasuda sangue, per via dell’amore viscerale che da sempre lega Gregorio Corigliano alla sua gente e al suo paese natale.
Ma tra una missione e l’altra all’estero torna nella sua vita, prepotente e indomita, la voglia di mare, e qui i ricordi del suo mare sono davvero infiniti e per certi versi anche strazianti: «Una volta, addirittura, Zarafino mi ha portato da mezzanotte alle sei del mattino per la pesca dei tonni. Non ho resistito che fino alle tre: il sonno ed il freddo furono più forti. Il modo per riscaldare i piedi era tenerli in acqua. Non ci crederete, ma l’acqua di notte, rispetto alla temperatura esterna, è molto calda. Poi su un angolino, alla meno peggio, mi addormentavo ed i marinai mi sfotticchiavano. Giustamente: sei voluto venire ed ora dormi? Svegliati, lupo. E chi ce la faceva?».

Gigi Malafarina

Delle sue radici sanferdinandesi Gregorio Corigliano ne fa in questo suo romanzo, perché tale è questo suo nuovo saggio, motivo di vanto. È come se essere nato da queste parti gli desse prestigio e autorevolezza, proprio perché figlio di una tradizione senza fine, che è la tradizione dei nostri paesi più piccoli e della gente che li vive, testimone privilegiato di una storia infinita: «Chi è nato ed è cresciuto in un paese piccolo piccolo di vicini ne ha quanti ne vuole, se li vuole, ed anche se non li vuole. Eccome se li ha. Perché un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra, c’è qualcosa di tuo che, anche quando non ci sei, resta lì ad aspettarti».
Un saggio letterario? Forse. Un romanzo? Forse ancora di più. Un’analisi antropologica? Certamente anche quello. Di fatto in questo suo ultimo libro il grande inviato di un tempo ricorda il suo passato con una forza ancestrale da lasciare esterrefatti: «La mia vita, solo giochi? No, di certo. Mio padre, in piena estate, ma di mattina, mi mandava a ripetizione da un altro vicino, anzi esattamente di fronte a casa mia. Il professor Giovannino Celeste. Docente molto attento che mi plasmava sulle lettere e sulla scrittura. Letture, letture, dettati e commenti. Autori i più vari. Pascoli, De Amicis, Leopardi, Foscolo e via dicendo. Questo per l’italiano. Per il francese, sempre di mattino, dal professor Peppino Cimato.

Gregorio Corigliano

Due ore toste, con pochissimi alunni a ripetere. Poi con lui, a mare. Mia madre attendeva sull’uscio ed in tre scendevamo sulla spiaggia. Mamma mi jettu? Va bene, ma aspetta un poco, asciuga il sudore».
Mamma, e poi ancora mamma, disperatamente mamma for ever: «Mio padre era già partito col Guzzino rosso, tutto imbardato con giubbotto, giornali al petto, berretto con copri orecchi e occhialoni antivento per insegnare a Spina, una contrada di Rizziconi. Mia madre restava a casa, al focolare, in tutti i sensi. Sistemare la casa, rifare i letti, cucinare al fuoco (‘u focularu) i fagioli (o i ceci) nella pignata, la verdura al fuoco della legna o ai fornelli di una modestissima cucina a gas».
Il libro di Gregorio Corigliano è anche lo specchio dell’anima del suo paese natale e della sua gente, e che il cronista rilegge qui in chiave moderna, dandoci la sensazione che la cosa non gli sia mai pesata, ma in realtà tutte le sue pagine sono impregnate di solitudine e di amarezza per il tempo perduto: «E dopo cena, verso le 19.30? Se fosse stato inverno, si sarebbe stato attorno alla ruota di legno col braciere (ancora ho sia l’una che l’altro) e mio padre ci parlava della guerra, era partito nel 1939 e rientrato dopo 9 nove anni, e soprattutto delle pene patite in prigionia, in India, ai piedi dell’Himalaya. Mia madre, quando mio padre si addormentava, ci raccontava dei sacrifici fatti da suo padre e dai suoi fratelli per coltivare la terra. Divertimento? Non tanto, anche perché la televisione non c’era. L’aveva un nostro cugino, Pasquale Ferro, padre di Mimì e Carmela. Andavamo a casa sua per vedere “Lascia o raddoppia” o “Campanile Sera”. Nel periodo 94 di Natale, c’era “Canzonissima”, con l’estrazione dei biglietti della Lotteria. Per il resto, niente, cioè tutto, rientravamo sereni, anche se morti di freddo. La casa era gelata, il calore veniva dal braciere che spostavi nelle varie stanze. Ed a letto? Un mattone caldo, o la bottiglia di vetro con acqua bollita! E ti addormentavi pronto a rialzarti al mattino e a ripetere ritmi e serenità dei giorni precedenti».
Dio mio che efficacia! Ma quella era la nostra vera vita.
Ancora più struggente il ricordo del giorno in cui nella Piana di Gioia Tauro arrivarono le ruspe per favorire il “sogno” del Quinto Centro Siderurgico, e qui il romanzo di Gregorio Corigliano si fa “amaro” e “disperato”: «Una “carneficina”! Quale spettacolo ai nostri occhi! Interi appezzamenti di terreno della Lamia, una delle contrade più floride per la produzione delle clementine, erano stati “livellati”. E la ruspa continuava imperterrita, senza pietà, ad abbattere, sradicandoli, altri alberi, sotto gli sguardi impietriti ed esterrefatti dei vecchi proprietari (vecchi perché i terreni erano passati di proprietà dello Stato che li aveva espropriati, pagandoli anche a prezzo di mercato) che a stento riuscivano a trattenere le lacrime. Qualcuno piangeva ancora! Dalla ruspa senza cuore all’inferno dell’abbandono il passo è breve».

Gregorio Corigliano ai tempi della conduzione della Tgr Calabria

Quanta tristezza atavica! Quanto rancore personale nei confronti di un Paese che non ha mai condiviso le ragioni del Sud e le necessità della gente che lo vive: «Questi appunti li ho scritti (a penna su carta a quadretti di cui conservo l’originale) a marzo del 1981. Allora veramente andai in campagna in contrada Granatara perché, dopo l’esproprio del nostro terreno per il (fallito) quinto centro siderurgico, mio padre non voleva restare senza un agrumeto e aveva investito il ricavato del risarcimento in un nuovo terreno, che ancora, per poco, abbiamo. Sono vent’anni, però, che, ad annate alterne, non provvede per se stesso. Ci rimetto del mio. Un giorno, abbastanza presto venderò. Con dolore, ma devo farlo! Chiuderò gli occhi sui tantissimi, immensi sacrifici fatti da mio padre. La crisi è tale che non conviene più avere pensieri ed occuparsi di terreni».
È storia contemporanea, del Mezzogiorno di questi ultimi 50 anni, storia nuda e cruda, impietosa e irritante, a volte offensiva e oltraggiosa verso chi ne è rimasto vittima, che qui viene riproposta con grande efficacia da un testimone autorevole e privilegiato come lo è ancora Gregorio Corigliano, e che ha fatto del linguaggio scritto la sua unica missione di vita.

Ingrid Bergman e Roberto Rossellini

Nient’altro? Potremmo andare avanti per ore ancora, c’è un capitolo di questo libro, per esempio, dove il grande cronista ricostruisce l’arrivo a San Ferdinando del regista Roberto Rossellini e di Ingrid Bergman: «A cena si apprese che Ingrid Bergman e Roberto Rossellini erano diretti proprio a Stromboli per girare l’omonimo film. Mio padre diede loro tutte le informazioni possibili perché sua madre, mia nonna, Mariangela De Simone, era proprio di Stromboli. Rossellini aveva 43 anni, Ingrid 34. Una storia d’amore che gli esperti di cinema conoscono bene. Nessuno, o pochi, forse, hanno mai saputo della sera d’amore calabro-sanferdinandese».
Una sera importante quella di ieri sera all’Accademia delle Muse, da ripetere magari da qualche altra parte ora che l’estate ci consente più tempo libero, e soprattutto meno timori per la pandemia appena passata. (giornalistitalia.it)

Pino Nano

CHI È GREGORIO CORIGLIANO

Gregorio Corigliano

Nato a San Ferdinando, in provincia di Reggio Calabria, il 7 agosto 1948 e residente a Cosenza, laureato in Economia all’Università di Messina nel 1970, è giornalista professionista iscritto all’Ordine della Calabria dal 12 febbraio 1980. È stato capo ufficio stampa dell’Ente provinciale per il Turismo di Reggio Calabria. Dal 1982 in Rai, è stato capo redattore della sede regionale della Calabria ed ha seguito i principali avvenimenti di cronaca degli anni ’80-’90 tra cui il rapimento di Cesare Casella e poi gli eventi politici fino al 2010. È stato dirigente nazionale organizzativo dell’Usigrai, il sindacato interno dei giornalisti Rai e commissario del Corecom, il Comitato Regionale delle Comunicazioni della Calabria.
Ha pubblicato anche: “Un po’ di noi – Storia di un viaggio in Calabria che ancora continua” (Pentagono Edizioni, 1988) e “I diari di mio padre 1938-46” (Luigi Pellegrini Editore, 2012). (giornalistitalia.it)

Un commento

  1. Alberto Cafarelli

    Ciao, Gregorio. Grazie!

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