Il Garante: “È come nel Panopticon dove i detenuti sono visti, ma non vedono”

Soro: “L‘algoritmo minaccia la nostra privacy”

Antonello Soro

Antonello Soro

ROMA – Nell’esperienza quotidiana siamo bersagliati, a volte anche meravigliandoci o mostrando ammirazione, da nuovi servizi e nuove applicazioni e “poiché nella dimensione digitale l’integrità fisica è rispettata, la percezione dei rischi per le nostre persone è praticamente inesistente”. Solo che “quando l’algoritmo diviene la chiave attraverso la quale scelte e comportamenti vengono orientati”, a quel punto “non possiamo non chiederci seriamente a quanta libertà siamo disposti a rinunciare pur di continuare a sfruttare tutti i benefici offerti dalle tecnologie”.
Lo ha detto Antonello Soro, presidente dell’Autorità garante della privacy, intervenendo al convegno “La società sorvegliata. I nuovi confini della libertà” ospitato nell’Aula dei Gruppi parlamentari.
Le stesse potenzialità dei Big Data, anche rispetto a dati anonimi o aggregati, lasciano intravedere – ha aggiunto Soro – rischi di “nuove forme di discriminazione per effetto di analisi sempre più puntuali e tecniche di re-identificazione sempre più raffinate”.
Per dare il senso della pervasività dei “controlli” e dei “controllori” invisibili, Soro ha anche fatto riferimento al lontano 1787, a quando cioè Jeremy Bentham ideò il Panopticon, ovvero l’architettura di un carcere ideale, nel quale i detenuti sanno di poter essere costantemente osservati, ma non possono verificare se il controllo davvero si verifica. Detenuti che sono dunque visti ma non vedono, sono oggetto di un’informazione ma non soggetti di una comunicazione. E forse “non esiste metafora più opportuna del Panopticon per descrivere il rapporto tra ciascuno di noi e le infinite forme di sorveglianza cui siamo, a volte anche volontariamente, soggetti e che, astraendo, possiamo ricondurre al potere pubblico e a quello dei privati”.
Libertà dunque “sempre più insidiata da forme di controllo sottili, pervasive e capaci per questo di annullare – se non adeguatamente regolate – ogni possibilità per l’individuo di “costruirsi liberamente” (secondo una delle più belle definizioni della privacy)”.
Il progresso della tecnologia – con una molteplicità di strumenti sempre più sofisticati e interconnessi – ha reso possibile un continuo processo di raccolta dei nostri dati, agevolmente archiviati a costi contenuti, ampliando a dismisura – dice Soro  lo spettro delle attività che possono essere svolte da chi quei dati conserva e analizza. L’economia digitale si avvale di strumenti di controllo inseriti nei dispositivi d’uso quotidiano, “la cui facilità di utilizzo contrasta con la pervasività e, soprattutto, con regole trasparenti che rendano pienamente edotti gli utenti dell’uso – e delle finalità – che quei dati consentiranno di realizzare”.
A questa tecnologia “sempre più invasiva” si affiancano “controllori” invisibili, processi di elaborazione e cessione di dati a terzi, spesso frammentati tra una moltitudine di soggetti in un contesto globalizzato, nonché la possibilità di conservare i dati per tempi illimitati. Così finisce con il delinearsi un sistema di sorveglianza capillare “che noi stessi, più o meno consapevolmente, alimentiamo, per l’incontenibile desiderio di condividere tutto ciò che ci riguarda”. E il rovescio della medaglia è rappresentato dal fatto che la “florida” economia dei dati, che offre sì straordinarie opportunità di sviluppo, “ha la potenzialità concreta di trasformare la persona profilata in docile oggetto di poteri altrui. Per altro verso è evidente quanto sia difficile essere ‘tecnologicamente’ soli in ambienti sempre più intelligenti e connessi”.
Soro ha messo in guardia dal rischio della facile accessibilità ai dati e della loro condivisione, ovvero di un loro utilizzo “per molteplici e differenti funzioni e interessi, indistintamente da parte di soggetti pubblici o privati”. Basti pensare a quello che potrebbe accadere – o forse accade – nel campo delle assicurazioni, della salute, del lavoro.
“Sono convinto che dovremmo contrastare la deriva per cui la persona è considerata come una ‘miniera a cielo aperto’ da cui attingere liberamente, per elaborare profili – individuali, familiari, di gruppo – funzionali ai bisogni di una società compressa tra le esigenze di sicurezza, incalzata dagli interessi dei produttori di tecnologie, minacciata da sottili strategie di esclusione”. Ed è anche per questo che “la privacy come libertà dal controllo è condizione della democrazia e del pluralismo, presupposto di dignità e garanzia contro ogni discriminazione”.
E garanzie “ancor più stringenti – per il Garante – devono essere previste rispetto al potere investigativo”, tanto più in un momento in cui la minaccia del terrorismo del “tempo ordinario” rischia di diventare “un dato strutturale della nostra quotidianità. Certo, di fronte a chi usa le stragi quale strumento di affermazione e reclutamento, unendo capacità simmetrica (militare) e asimmetrica (attentati), diventa forte la tentazione di scorciatoie emergenziali. Penso al paradosso della Francia che vuole inserire l’emergenza in Costituzione. Ma questo vorrebbe dire non solo tradire la nostra stessa identità democratica ma anche fare il gioco dei terroristi, che puntano alla negazione dei principi su cui si fondano le democrazie occidentali”. (Agi)

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