Prima sentenza in Italia dopo 16 anni: Mamur e Zar Jan condannati in Assise

Omicidio Cutuli: 24 anni ai due afghani

Maria Grazia Cutuli

Maria Grazia Cutuli

ROMA – La prima Corte d’assise di Roma ha condannato a 24 anni di reclusione gli afghani Mamur e Zar Jan per l’omicidio di Maria Grazia Cutuli, la giornalista di 39 anni del Corriere della Sera uccisa, assieme a tre colleghi (l’inviato spagnolo del Mundo Julio Fuentes, il fotografo afghano Azizullah Haidary e l’australiano Harry Burton della Reuters), il 19 novembre 2001 durante un agguato lungo la strada tra Jalalabad e Kabul.
I due imputati, collegati in videoconferenza dal carcere di Kabul, dovranno risarcire i danni pari a 250mila euro ciascuno alle parti offese Rcs e familiari della giornalista. Il presidente della Corte, Vincenzo Capozza, ha disposto la pubblicazione per estratto della sentenza sul Corriere della Sera, su la Repubblica e sul Corriere di Sicilia.
Un’attesa durata sedici anni: tanto ci è voluto per avere una prima sentenza in Italia nei confronti degli autori dell’omicidio di Maria Grazia Cutuli. Lo Stato italiano, al di là della ferrea volontà di arrivare a giudicare i responsabili di quel delitto maturato per motivi politici, ha dovuto fare i conti con difficoltà burocratiche, intoppi procedurali e la instabile situazione politica in Afghanistan.

Queste le tappe della vicenda

13 gennaio 2003: la Procura di Roma chiede un’ordinanza di custodia cautelare a carico di tre afghani ma il gip Roberto Reali non è dello stesso avviso e respinge l’istanza.
26 marzo 2003: il Tribunale del riesame ribalta la decisione del gip e dà ragione alla Procura che nel frattempo è al lavoro per identificare altri elementi del commando (tra i 7 e i 9).
21 aprile 2003: le autorità afghane annunciano di aver arrestato cinque uomini con l’accusa di aver assassinato Maria Grazia Cutuli e gli altri tre giornalisti. Amrullah Salahi, alto esponente dell’ente per la sicurezza nazionale, dice che i cinque, seguaci del regime dei Talebani e appartenenti ad Al Qaeda, hanno confessato di essere gli autori della strage.
11 luglio 2003: la Cassazione annulla senza rinvio l’ordinanza del Tribunale del riesame dando ragione al difensore dei tre afghani che aveva sostenuto l’insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, delle esigenze cautelari nonché della condizione di procedibilità della presenza del reo nel territorio dello Stato italiano.
8 agosto 2003: ancora un no del gip Roberto Reali alla richiesta della Procura di applicare la misura cautelare in carcere nei confronti degli afghani Taher Fedai Mohmmad, Mirwais Jan e Mar Jan per l’omicidio Cutuli. E ciò, nonostante, questa volta, la Procura avesse ipotizzato non più l’omicidio volontario a scopo di rapina, bensì quello politico.
6 novembre 2003: la Procura torna di nuovo davanti al Tribunale del riesame, dopo il secondo no del gip, spiegando che l’uccisione della cronista del Corriere avvenne in un periodo in cui in Afghanistan “gruppi di talebani asserragliati su quelle montagne aggredivano e violentemente rapinavano tutti (e soltanto) i giornalisti occidentali che transitavano per quella strada che era la sola che portasse in Pakistan attraversando il distretto amministrativo di Sarobi”. Fu dunque un delitto politico, conseguenza di “azioni di guerriglia, indirizzate solo a giornalisti stranieri” e che “miravano a strumentalizzare i mezzi di informazione per convincere l’opinione pubblica occidentale che l’Afghanistan era assolutamente ingovernabile da parte di quelle forze di occupazione i cui Governi, invece, dichiaravano il contrario”. Il Tribunale del riesame, stavolta, boccia la richiesta della Procura.
24 marzo 2004: la Cassazione annulla con rinvio al Tribunale del riesame il provvedimento dei giudici della libertà del 6 novembre 2003.
28 luglio 2004: il Tribunale del riesame di Roma, presieduto da Giuseppe D’Arma, dispone la misura della custodia cautelare in carcere per i tre afghani.
4 agosto 2004: Reza Khan, l’afghano di 29 anni arrestato il 9 giugno dalle autorità afghane, confessa in un’intervista tv di avere partecipato all’agguato del 19 novembre 2001, dicendosi colpevole dell’uccisione di uno dei quattro giornalisti e descrivendo la sua vittima come un uomo anziano, forse il connazionale Haidary.
20 novembre 2004: Kabul annuncia la condanna a morte di Reza Khan per l’omicidio di sua moglie, più quindici anni di carcere per stupro (negato dall’imputato ed escluso dalla Procura di Roma) ai danni della giornalista italiana.
5 giugno 2005: le autorità afghane annunciano l’arresto di Zar Jan, ritenuto il capo della banda.
1 luglio 2005: Reza Khan chiede di essere processato in Italia.
22 luglio 2005: il Tribunale del riesame di Roma dice sì alla custodia cautelare in carcere per Reza Khan e Mamur Gol Feiz.
27 ottobre 2005: l’Afghanistan annuncia la condanna a morte dei fratelli Zar Jan e Abdul Wahid. Cinque complici sono stati condannati a 20 anni di carcere.
22 giugno 2006: la Procura chiude l’inchiesta per 6 indagati: Mar Jan, il cugino Miwa Jan, Mohmmad Taher Fedai, Reza Khan, Mamur Gol Feiz e Zar Jan.
14 marzo 2007: il gup Carla Santese dichiara nullo il deposito degli atti che non risulta notificato al domicilio dei 6. Gli atti tornano alla Procura che ricorre in Cassazione.
28 agosto 2007: la Cassazione dà ragione al gup e respinge il ricorso della Procura.
8 ottobre 2007: Reza Khan viene giustiziato.
19 dicembre 2007: la Procura di Roma rinnova la richiesta di rinvio a giudizio nei confronti di 5 afghani.
6 luglio 2009: il gup Luciano Imperiali rinvia a giudizio davanti alla prima Corte d’assise di Roma Mar Jan (poi assolto per dubbi sulla sua identità) e proscioglie Mohmmad Taher Fedai e Miwa Jan perché gli elementi acquisiti a loro carico sono stati ritenuti insufficienti per un processo. Stralciata la posizione di Mamur Gol Feiz e Zar Jan che impediti a presenziare in quanto detenuti in Afghanistan devono far sapere se intendano o meno prendere parte al processo italiano.
14 settembre 2015: comincia il processo a Mamur Gol Feiz e Zar Jan.
9 novembre: il pm Plastina chiede la condanna a 30 anni per i due imputati.

Legale Rcs: “Un delitto politico orribile”

Quello della giornalista Maria Grazia Cutuli “è stato un delitto politico orribile”. È il commento dell’avvocato Caterina Malavenda, legale di parte civile per conto di Rcs. “Voglio ringraziare Procura e Digos – ha detto la penalista commentando i 24 anni di reclusione inflitti ai due afghani – per il lavoro eccezionale.
La condanna in Italia conferma quella comminata all’estero, ma di sicuro ha un altro valore. La sentenza della Corte d’assise non potrà restituire Maria Grazia alla famiglia, ma è sicuramente di conforto per i parenti perché sanno che almeno lo Stato italiano c’è”.

Legale famiglia: “Valorizzato il lavoro della cronista”

“La sentenza emessa dalla prima Corte d’assise di Roma dà valore al lavoro svolto da una giornalista che rappresentava l’Italia all’estero portando avanti il diritto all’informazione per il suo Paese”. Lo ha detto l’avvocato Paola Tuillier, legale di parte civile per conto della famiglia Cutuli, commentando la condanna a 24 anni di carcere inflitti a Mamur e Zar Jan. “A questa sentenza si è arrivati – ha concluso – anche grazie all’importante lavoro svolto dalla Digos, dalla Procura di Roma, dai servizi segreti afghani e dall’ambasciata italiana a Kabul”.

Difensore Mamur: “Una sentenza che non rende giustizia”

“Pur essendo vicino alla famiglia della giornalista, ritengo che questa sentenza, che va rispettata, non renda giustizia”. Lo ha dichiarato l’avvocato Valentina Bevilacqua, difensore di Mamur, condannato a 24 anni di reclusione assieme a Zar Jan. “Aspettiamo di leggere le motivazioni (fra 60 giorni, ndr), ma sono convinta – ha proseguita – che i profili di diritto e di fatto da approfondire siano tantissimi”. Sia la penalista che il collega Francesco Cutrona, che ha curato la difesa di Zar Jan, sono pronti a ricorrere in appello”. (agi)

 

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