Il Presidente della Repubblica, al Quirinale, in occasione della cerimonia del Ventaglio

Mattarella: “L’informazione non è spettacolo”

Sergio Mattarella riceve il ventaglio dall’Associazione Stampa Parlamentare

Sergio Mattarella riceve dall’Associazione Stampa Parlamentare il ventaglio realizzato da Andrea Colella

ROMA – Si è svolta, al Palazzo del Quirinale, la tradizionale cerimonia di consegna del “Ventaglio” al Presidente della Repubblica, Sergio Mattarella, da parte del Presidente dell’Associazione Stampa Parlamentare, Sergio Amici, alla presenza dei componenti del Consiglio direttivo, degli aderenti dell’Associazione e di personalità del mondo del giornalismo. Dopo l’intervento del Presidente Amici, il Presidente Mattarella ha pronunciato un discorso. Successivamente gli è stato consegnato il Ventaglio realizzato da Andrea Colella, vincitore del concorso indetto dall’Associazione Stampa Parlamentare di concerto con l’Accademia di Belle Arti di Roma. Presenti, tra gli altri, il segretario generale della Fnsi, Raffaele Lorusso, e il presidente del Consiglio nazionale dell’Ordine dei giornalisti, Enzo Iacopino.

Il discorso di Sergio Mattarella

Vi ringrazio per questo incontro, tradizionale, che, tra i suoi motivi, ha anche quello, forse principale, di augurarsi vicendevolmente un sereno periodo di pausa durante l’interruzione dell’attività istituzionale. E sappiamo bene quanto bisogno vi sia di serenità, e non soltanto nel periodo di pausa davanti a noi.
Periodo, questo, che, non molti giorni fa, Padre Jacques Hamel, trucidato ieri nella sua chiesa, aveva definito “Un tempo per essere rispettosi degli altri, chiunque essi siano”, parole che sottolineano, meglio di qualunque altra cosa, l’enormità del crimine.
In queste ultime settimane abbiamo attraversato eventi tristi per il nostro Paese. Dalla strage di Dacca alla sciagura ferroviaria in Puglia, alla strage di Nizza: tanti nostri concittadini hanno perso la vita o sono ancora alle prese con le conseguenze di quegli eventi. Si aggiunge a tutto questo ancora l’attesa di giustizia per la barbara uccisione di Giulio Regeni.
Il pensiero corre anche ad altri luoghi, alla recente strage di Kabul, a Istanbul, a Orlando, ai tanti attentati in Iraq, alle vittime negli ospedali della Siria, alla strage di disabili in Giappone. Nessun luogo è ormai lontano e in nessun luogo la violenza può essere considerata normale.
Per concentrare la nostra attenzione sull’Europa siamo costretti a ripercorrere un itinerario di crimini che va da Utoya a Charlie Hebdo, dal Bataclan al pilota tedesco suicida con centocinquanta vittime, dall’aeroporto di Bruxelles all’assassinio della deputata inglese Jo Cox, dalla strage di Nizza a quella di Monaco e ancora, ad Ansbach, a Saint-Etienne-du-Rouvray.
Non vi è soltanto l’assalto, feroce, del terrorismo.
Questa stagione sembra dare spazio a ogni tipo di violenza, sembra favorire il propagarsi anche di germi endogeni rimasti a lungo nascosti, sotto controllo, nelle nostre società e che, all’improvviso, esplodono. Né possiamo dimenticare che gli assassini di Parigi e di Bruxelles (e, ancora ieri, a St. Etienne du-Rouvray) erano nati e cresciuti in Paesi europei.
La diversità delle cause di stragi e crimini accresce l’allarme. Sembra davvero che il démone della violenza si sia nuovamente diffuso in Europa.
Per molti decenni, dopo la fine della seconda guerra mondiale e dopo la caduta dei regimi autoritari, abbiamo vissuto con l’aspettativa di un futuro sempre migliore.
Abbiamo incontrato, nel tempo, tante difficoltà e violenze: per restare al nostro Paese basta ricordare la stagione di morte del terrorismo interno e le stragi e i crimini di mafia.
Ma sembrava che il clima di pace, di collaborazione e di sicurezza si consolidasse sempre di più.
Registriamo che questa prospettiva non è più certa, anzi che è messa pesantemente in crisi.
Naturalmente l’allarme più alto è – come è giusto – per la violenza che nasce dalla propaganda terroristica di ispirazione islamista.
Si tratta, oltreché del fenomeno più evidente, frequente, efferato, della minaccia più grave e dell’emergenza più importante per l’intera comunità internazionale.
Ma non vi è, ripeto, soltanto questa violenza, gravissima e allarmante. Occorre capire da dove scaturiscono, e perché, tante manifestazioni di violenza che fanno irruzione nella vita quotidiana.
Siamo sfidati dal terrorismo e veniamo interpellati dalle periferie esistenziali presenti nelle nostre società, nelle aree urbane, nei territori dell’Europa, e, allo stesso tempo, dalle periferie del mondo.
La violenza è tornata a diffondersi in Europa attraverso strade differenti. Di fronte a un fenomeno così diversificato e complesso occorre trovare la capacità di analizzarlo nella sua completezza per poterlo contrastare e sconfiggere in tutte le sue forme e cause, a partire naturalmente da quella del terrorismo islamista. Respingendone il proposito criminale di utilizzare la religione per scatenare un conflitto globale. Anche in questo occorre la collaborazione attiva delle comunità religiose d’Europa, particolarmente di quelle islamiche.
Le istituzioni e le società europee sono in affanno. I legami di solidarietà, a livello sovranazionale e sul piano interno, si allentano e sembrano sfilacciarsi, a causa della paura e del disorientamento che, in questo modo, si accrescono e vengono alimentati.
Si percepisce un diffuso stupore di fronte alle attuali difficoltà, quasi che libertà, pace e progresso, che hanno accompagnato questi settanta anni, fossero una condizione scontata e non il frutto di scelte lucide e coerenti, rivelatesi avvedute nel lungo periodo. L’unità europea, ad esempio, non è stata donata da qualcuno, bensì è il risultato di un impegno faticoso e paziente, a costante confronto con il divenire della storia.
Si rischia di entrare in una nuova età dell’ansia.
Non si può ignorare o condannare la paura: è un sentimento che va rispettato. Anche il bisogno di sicurezza fa parte della dimensione civica. Occorre rispondervi con grande serietà. Nel mio discorso di insediamento mi sono permesso di dire che lo Stato deve saper assicurare il diritto dei cittadini a una vita serena e libera dalla paura.
Quel che dobbiamo impedire è che la paura ci vinca. Non possiamo consentire che il nostro Paese, che l’intera Europa, entri nell’età dell’ansia.
Questo dovrebbe essere, e deve essere, invece, il tempo della responsabilità. E la responsabilità richiede impegni comuni al di sopra delle divisioni. Sul piano continentale e su quello interno.
Il nostro Paese ha questa vocazione e attitudine sul piano europeo; e, sul piano interno, dispone di ampie risorse di solidarietà, risorse che vanno valorizzate e assecondate.
Il terrorismo si può sconfiggere con una sempre più ampia e completa collaborazione operativa tra gli Stati, superando inerzie e resistenze a condividere informazioni.
La violenza che proviene dall’interno della società si può combattere soltanto con un forte senso di solidarietà e di comunanza di vita. Con accresciuta coesione sociale e non con il disimpegno o la contrapposizione.
Penso – per fare un solo esempio – alle file di persone che si sono viste negli ospedali pugliesi per donare il sangue ai feriti della sciagura ferroviaria. Quelle tante, ammirevoli, persone si sono sentite responsabili rispetto alla sorte dei feriti.
Per uscire per un momento dai confini d’Europa, credo che tutti rammentiamo lo straordinario esempio del giovane studente bengalese, Faraaz Hossein, musulmano, che, a Dacca, ha rifiutato la possibilità, offertagli, di lasciare il ristorante preda dei terroristi e ha preferito restare con le sue colleghe, morendo per difenderle. Si è sentito responsabile rispetto alle sue amiche e colleghe e ha rifiutato la paura. Lo possiamo definire, a buon titolo, un eroe dei nostri tempi.
Non si tratta di casi individuali: al contrario si tratta di scelte di umanità, di civiltà, le sole che possono prevalere sulla cultura dell’egoismo, dell’intolleranza, della violenza.
A questi esempi, e ai valori che li ispirano, occorre far riferimento per individuare i modi di efficace contrasto alla violenza, per sconfiggerla nelle sue varie forme e cause.
Quest’anno celebriamo il settantesimo anniversario della nostra Repubblica. Le scelte operate in quegli anni hanno consentito di superare le immani difficoltà conseguenti a due guerre mondiali in trent’anni. Non erano tempi più facili di questi ma lucidità e lungimiranza hanno guidato quelle scelte. Si sono accantonate paure e diffidenze. Si sono rigettate spinte disgregatrici. Abbiamo puntato sulla condivisione di valori come pace, libertà, democrazia, sicurezza e benessere.
Non ci è consentito di recedere da quei principi.
Di questo abbiamo bisogno in Europa: occorre, ovunque, un sovrappiù di politica. Una politica capace di pensare e progettare al di fuori di calcoli contingenti e di umori superficiali, di esaminare con serietà fenomeni complessi e governarli con chiarezza e coraggio.
La vostra collega Letizia Leviti – che desidero qui ricordare con voi – nello splendido messaggio lasciatoci pochi giorni fa, ha detto: “Abbiamo un debito con i telespettatori: dobbiamo dirgli la verità”.
Questo richiamo non vale soltanto per i giornalisti: vale per tutti, a partire dalle donne e dagli uomini delle istituzioni, siano indipendenti, di maggioranza o di opposizione.
Talvolta i media cedono alla tentazione di voler spiegare in tempo reale gli avvenimenti, in luogo di narrarli, cercando nello smarrimento della gente, nei frammenti di immagine, in testimonianze, rese talvolta sotto choc, conclusioni destinate sovente a rivelarsi fallaci alla luce dei fatti. Conclusioni che comunque, conquistando diritto di cittadinanza, nel moto, labile e perpetuo, dell’informazione, incidono nella formazione delle opinioni.
Non può valere in questo caso il detto “the show must go on”, perché non si tratta di spettacolo bensì della vita e del futuro delle persone.
Sotto altro profilo, il sacrosanto e irrinunziabile diritto di cronaca e il dovere di informare ¬ anch’esso sacrosanto e irrinunziabile –, non sono e non possono essere, naturalmente, posti in discussione. Forse sarebbe opportuno, peraltro, ricercare il punto di equilibrio con l’esigenza di evitare che la ripetitività fuor di misura di immagini di violenza possa provocare comportamenti emulativi. Quegli stessi comportamenti che il web, pur tra tanti benefici, talvolta sembra suggerire, offrendo una platea sterminata ai predicatori di odio.
Da tante parti è stato sottolineato più volte che è anzitutto sul terreno della cultura e dei valori che è possibile battere la violenza che aggredisce le nostre città.
Il clima di incertezza si riflette anche nel linguaggio della politica, dei media e dei social. Un linguaggio talvolta caratterizzato da toni aspri.
Dovremmo stare molto attenti, tutti, a partire da chi ha responsabilità politiche e istituzionali, a evitare espressioni violente, oltraggiose, aggressive. Non è accettabile insultare ripetutamente un avversario politico, farne bersaglio di una vera e propria campagna di denigrazione o di livore.
Contrastare anche le forme di violenza presenti nel linguaggio costituisce, a pieno titolo, una esigenza di sicurezza.
Sul piano della sicurezza e del rispetto della dignità e della vita delle persone va considerata, con determinazione, la violenza, spesso omicida, contro le donne. Un fenomeno inquietante, che ha assunto, in questi ultimi mesi, l’aspetto di una vera escalation. Questi gravissimi delitti sono frutto, in molti casi, di una patologica e distorta concezione della donna e del suo ruolo nella società. L’allarme sociale deve essere alto a questo riguardo. Occorre un’opera di prevenzione e una campagna sociale e culturale che parta dalle scuole e coinvolga istituzioni, personalità della cultura, dello spettacolo, dello sport. Si tratta di un’altra forma di violenza che va contrastata ed estirpata.
La sicurezza della nostra società dipende da diversi fattori ed è legata anche alla crescita culturale, alla maturità civile, a uno sviluppo equilibrato e sostenibile.
Lo Stato sociale è un fondamentale fattore di sicurezza: occorre preservare gli indirizzi costituzionali, ridurre le diseguaglianze e le povertà, evitare che le generazioni più giovani paghino il prezzo maggiore della crisi.
Tutte le energie disponibili vanno impegnate per consentire l’accesso al lavoro e la possibilità, per i giovani, di progettare il proprio futuro.
Contrastare le diseguaglianze e le ingiustizie rende più forte una società.
Lei ha fatto, Presidente Amici, riferimento al Referendum.
Non posso che condividere il suo auspicio che il confronto si svolga sul merito della riforma sottoposta al voto popolare perché l’elettorato si esprima con piena consapevolezza, nella sua sovranità.
In queste settimane, talvolta, a proposito della data e del cosiddetto spacchettamento, mi è parso di assistere a discussioni un po’ surreali, quasi sulla scia della caccia ai Pokemon.
Si è detto che vi sarebbe stato uno spostamento della data di celebrazione del Referendum. Qualcuno ha anche invitato perentoriamente a comunicarne la data.
La data del referendum non è stabilita per il semplice fatto che non è ancora possibile farlo.
La procedura del referendum è regolata dalla legge e l’iter per la fissazione della sua data può essere avviato soltanto dopo che la Corte di Cassazione avrà comunicato quali sono le richieste ammesse a referendum. La Cassazione, che ha il compito di valutare la loro regolarità, secondo la legge, ha tempo fino al 15 agosto per comunicarlo. Fino a quando non vi sarà questa comunicazione la procedura per fissare la data non può partire.
Si è parlato anche di discussioni tra le forze politiche su uno “spacchettamento” della domanda referendaria. Va forse chiarito che, a quel riguardo, le forze politiche non avrebbero avuto alcun potere né possibilità di discuterne, così come non ne avrebbe avuto il Capo dello Stato.
Infatti, a fronte di una richiesta, laddove vi fosse stata, soltanto la Corte di Cassazione avrebbe potuto decidere sulla formulazione dei quesiti; e rigorosamente in base a valutazioni giuridiche, non a considerazioni politiche.
Lei, Presidente Amici, ha fatto cenno alla situazione in Turchia.
Non posso che manifestare sollievo per il fallimento del colpo di Stato. Guardiamo alla Turchia come a un Paese che ha scelto di compiere un impegnativo percorso verso l’Europa. I colpi di Stato, oltre a essere un attentato contro la democrazia, mettono automaticamente fuori da questa possibilità. Decisamente al di fuori ci si collocherebbe anche con reazioni che si caratterizzassero come estranee allo Stato di diritto ed alle Carte liberamente sottoscritte a livello internazionale. Ci auguriamo al più presto un pieno ritorno alla normalità, specie per ciò che riguarda funzioni essenziali per il funzionamento di ogni democrazia, come quelle della giustizia, dell’insegnamento universitario e scolastico, della libera stampa.
Vi sono principi di libertà, di rispetto delle persone e dei loro diritti che non possono essere negati e neppure negoziati.
Prima di ringraziare per il Ventaglio e fare i complimenti all’autore, Andrea Colella, e all’Accademia di Belle Arti presso cui studia, vorrei concludere con uno sguardo ancora al nostro Paese.
Vi è bisogno della collaborazione di tutti.
Nei momenti di crisi profonda e diffusa un grande Paese come il nostro ha il dovere di essere unito, per infondere fiducia e forza e per alimentare la speranza.

Sergio Mattarella
Presidente della Repubblica Italiana

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