L’ultimo lavoro del giornalista e storico: “La storia di un massacro inumano”

La “Maledetta guerra” raccontata da Del Boca

Maledetta Guerra

Lorenzo Del Boca

Lorenzo Del Boca

ROMA – “Maledetta guerra” è un racconto – nato, ancora una volta, dall’amore per la ricerca e la verità storica di Lorenzo Del Boca (Piemme Edizioni, in libreria da domani) – che concede poco alla retorica dell’Eroismo, della Patria, del Sacrificio, della Nazione e del Sacro Suolo: tutto con abbondanza di lettere maiuscole per assicurare un’appropriata ampollosità alle parole.
Non c’è la Gloria, non c’è la Vittoria non c’è il Riscatto Supremo (tutto con lettere maiuscole). E non c’è nemmeno il Supremo Dovere.
Si tratta di un racconto, quello scritto dal giornalista e storico, tre volte presidente dell’Ordine nazionale dei giornalisti dopo esserlo stato della Fnsi, cosiddetto “revisionista” che tende ad allontanarsi dal filone accademico che ancora ispira i libri di scuola e ne determina l’impianto ideologico.
La prima guerra mondiale è la storia di un massacro inumano e sproporzionato che i contadini e gli operai (soprattutto i contadini) hanno pagato per assecondare il delirio di una mezza dozzina di parrucconi e la follia di qualche centinaio d’invasati.
Per il desiderio di grandezza di casa Savoia sono state sacrificate quattro generazioni di ragazzi. Alcuni (pochi) erano partiti volontari perché credevano nella giustizia di un conflitto contro il “nemico storico” dell’Austria Ungheria. La maggior ha risposto solo per obbedire a degli ordini e rispettare il proprio senso del dovere.
Occorreva un pretesto per incrociare le armi ed è stato trovato nella necessità di liberare le terre “irredente”. Idea che per metà è sciocca e per l’altra metà truffaldina.
La teoria (guarda come ritorna il Risorgimento) venne assicurata da Giuseppe Mazzini che, in tempi non sospetti, se n’era uscito con un “Le Alpi Giulie sono nostre come le Carniche. Il litorale istriano è il compimento del litorale veneto. Nostro è l’alto Friuli, nostra è l’Istria e nostra è Trieste. Lì sta la porta dell’Italia: il ponte che unisce noi e gli ungheresi. Abbandonandola, quei popoli rimangono ostili nostri. Avendola, sono sottratti all’esercito nemico e alleati al nostro”.
Opinione risibile, sul piano logico e teoria smentita dalla storia.
Quella dello spartiacque naturale che disegna limiti rigorosi e rigidi è dottrina assai artificiale. Si scontra con la quotidianità degli abitanti delle zone di confine che, nei secoli, hanno costruito frontiere aperte, mobili e permeabili. I valichi non hanno mai rappresentato un ostacolo ma un’occasione di comunicazione. Li attraversavano per scambiarsi mercanzie, spose e saperi.
I pastori, eludendo lo spartiacque, seguivano i versanti favorevoli al pascolo. I cattolicissimi mercanti Walser di Gressoney scavalcavano il monte Rosa con le stoffe per scendere in Svizzera e commerciare con i paesi dell’eresia. E la minoranza ladina che abitava le valli di Fassa, Gardena e Badia si sentiva ben più legata che divisa dalle Crode del Sella, nel cuore delle Dolomiti.
A Bolzano parlavano italiano e tedesco che, senza soluzione di continuità, continuano a essere praticati tutt’oggi. Fra Trieste e Gorizia si parlava (e si parla) l’italiano e lo sloveno.
Ma che si trattava di una bugia è dimostrato dall’accordo che venne stipulato a Londra nell’aprile 1915 quando l’Italia, sciogliendo l’alleanza con l’Austria e la Germania e optando per scendere in campo con Francia e Inghilterra rivendicò Friuli e Trentino ma pretese (sulla carta) un pezzo di Slovenia e di Croazia, un pezzo d’Albania e alcune isole della Grecia. Ammesso e non concesso che d’irredentismo si trattasse che cosa c’entrava (e che cosa c’entra) la Slovenia, la Croazia, l’Albania e la Grecia?
Cade la foglia di fico della guerra giusta e si apre il capitolo della guerra coloniale, quella di conquista, di occupazione e, in qualche caso di usurpazione.
Semmai fosse necessaria qualche conferma ulteriore, le popolazioni che si volevano liberare considerarono nemico l’esercito italiano. E i soldati italiani, soprattutto gli ufficiali, non ebbero dubbi nel trattare i liberati come vinti, sottomessi e soggiogati.
Fra la popolazione che si voleva descrivere come “irredenta”, i cittadini che disertarono la chiamata di Vienna per arruolarsi nei reparti di Roma rappresentarono un numero esiguo. Nel 1914, indossarono la divisa di Vienna 27 mila reclute e solo 400 scelsero l’Italia.
Dal 1914 al 1918 le renitenze in campo austriaco riguardarono 687 trentini e 2.107 fra giuliani e dalmati. Gli altri 80 mila in età di leva non esitarono a ingrossare i ranghi austriaci e, nella maggior parte dei casi, dimostrarono anche un impegno aggiuntivo. Forse occorre raccontare un’altra guerra… Due, restano i nostri nonni, obbligati a scavarsi una fossa che è stata chiamata trincea e a rincantucciarsi dentro come se si fosse trattato della propria tomba.
A percorrere la selva di diari e di memoriali emerge quanto infame fosse la vita di quei poveri ragazzi immersi fino alle caviglie nel fango, alle prese con topi, cimici, pulci, dissenteria, infezioni di ogni genere, colera e alla fine la terribile epidemia di “spagnola”.
I nemici davanti a cinquanta metri che non facevano sconti. E dietro gli ufficiali che credevano di trattare quei loro soldati come, al tempo dei feudatari, consideravano i servi della gleba.
Nei confronti di tanti morti, troppi storpiati, una quantità immensa di “scemi di guerra” abbiamo contratto un debito di riconoscenza che, prima o poi, dovremo anche deciderci di onorare.

Un commento

  1. Giampiero Brunetti

    Complimenti a Lorenzo Del Boca perché ci offre, ancora una volta, un racconto che prende la realtà così com’è, “senza maiuscole”. Con la capacità di guardare a vite ed aspetti umani veri dell’esistenza di quegli anni difficili. Un altro lavoro che vale la pena leggere e far conoscere per la verità dei fatti che trasmette e vuole richiamare!

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