Il paradossale caso di Agostino Pantano. Carlo Parisi: “Si uccide la libertà di stampa”

Ricettazione, l’ultimo bavaglio ai giornalisti

Agostino Pantano

Agostino Pantano

Carlo Parisi

Carlo Parisi

REGGIO CALABRIA – Non c’è pace per i giornalisti, ma soprattutto per la libertà di stampa che, nel nostro Paese, sta vivendo una delle più brutte stagioni di intimidazione e di censura.
Mentre il Parlamento non si decide di intervenire, senza ritardi e remore, per mettere fine sia all’aberrante ipotesi di punire i giornalisti con il carcere, che alle querele temerarie o, peggio, alle minacce di querele, usate come strumento di intimidazione e di censura della libertà di stampa, dalle pieghe del diritto viene estratto ed adattato alla professione giornalistica uno dei reati più contestati ai delinquenti comuni col vizio del furto: la ricettazione.
Il caso del collega Agostino Pantano, imputato di aver “acquistato, ovvero ricevuto, notizie sottoposte al segreto di ufficio” è, infatti, l’ultima, paradossale, variante del bavaglio ai giornalisti con l‘aggravante del rischio di finire in galera con una condanna fino ad otto anni di reclusione. E ciò, paradosso dei paradossi, nonostante la decisione del Gip del Tribunale di Cosenza di archiviare il caso sia per l’insussistente diffamazione che per la diffusione di notizie coperte dal segreto d’ufficio, riconoscendo al giornalista il legittimo «esercizio del diritto di cronaca e di critica politica, sussistendone i presupposti di interesse pubblico, verità della notizia e continenza».
È chiaro che se il Parlamento tarda ad intervenire a garanzia del diritto di cronaca e di critica dei giornalisti, “senza limitazioni e censure”, l’autobavaglio preventivo più che un serio rischio finirà per essere molto presto un’inquietante regola non scritta.
All’indifferibile necessità di abolire il carcere per i giornalisti per il reato di diffamazione e di prevedere una chiara ed efficace normativa contro le querele temerarie ed i risarcimenti milionari, oltre a regolamentare l’informazione sul web, la normativa sul diritto all’oblio e gli obblighi di documentate controverità in caso di richiesta di rettifica, il Parlamento è chiamato, dunque, ad intervenire anche nei confronti della nuova “variante” rappresentata dalla ricettazione “di notizie”. Un reato assurdo per una professione deputata a riferire ai cittadini notizie, naturalmente vere, seppur scomode, che lapalissianamente – per essere tali – finiscono sempre per dar fastidio a qualcuno.

Carlo Parisi
Giunta Esecutiva Fnsi
Segretario Sindacato Giornalisti della Calabria

Il caso trae origine da una querela per 7 articoli sullo scioglimento del Comune di Taurianova per mafia

TAURIANOVA (Reggio Calabria) – La vicenda risale al 2010 e trae origine da una querela dell’ex sindaco di Taurianova, Rocco Biasi, nei confronti del giornalista Agostino Pantano, all’epoca responsabile della redazione di Gioia Tauro del quotidiano Calabria Ora, per sette articoli sullo scioglimento per mafia del Consiglio Comunale del paese calabrese.
Il 17 ottobre 2011 il Gip del Tribunale di Cosenza, Enrico Di Dedda, accoglie la richiesta di archiviazione affermando che “non può non ravvisarsi l’esercizio del diritto di cronaca e di critica politica, sussistendone i presupposti di interesse pubblico, verità della notizia e continenza”. “Non può peraltro – aggiungeva il Gip – ravvisarsi né la configurabilità della violazione dell’art. 621 c.p., in quanto saremmo in presenza di una giusta causa, ossia l’esercizio del diritto ex art. 21 Cost., né quella dell’art. 326 c.p. non essendo gli indagati pubblici ufficiali, tenuti al segreto d’ufficio”.
Rimarcando come “la relazione che ha costituito il materiale con cui il giornalista ha costruito i suoi articoli era pacificamente sottoposta al segreto d’ufficio, tanto che non è stata trasmessa nemmeno al P.M. che pure l’aveva richiesta in delega d’indagine…Siamo in presenza allora della notizia criminis del reato ex art. 648 c.p., avendo ricevuto il Pantano informazioni provenienti dal reato ex art. 236 c.p., commesso da ignoti, e avendo sfruttato le informazioni illecitamente ottenute per un suo fine di profitto, ossia la realizzazione degli articoli costituenti la sua attività professionale. D’Altronde non si può dubitare della consapevolezza di ricevere notizie segrete, in quanto se fossero state ostensibili, le avrebbe normalmente richieste o avrebbe indicato chi, pubblico ufficiale, gliele aveva fornite”.
A tal proposito Pantano, interrogato dalla Questura, aveva dichiarato di aver “avuto modo di visionare la relazione della Commissione d’accesso che ha portato allo scioglimento dell’Amministrazione Comunale Taurianovese”, precisando che “la visione di questo documento è avvenuta nell’ambito delle mie attribuzioni di giornalista”.
“In ogni caso – concludeva Agostino Pantano – evidenzio che non ero a conoscenza dell’esistenza di alcun vincolo riguardo a tale documento. Non è mia intenzione precisare quali sono le modalità attraverso le quali ho potuto visionare quell’atto, per riguardo alla fonte e per ragioni di segreto professionale”.
Il giornalista Agostino Pantano, 42 anni, il 16 aprile prossimo dovrà comparire davanti al Giudice monocratico del Tribunale di Palmi per rispondere del reato di ricettazione di notizie sottoposte al segreto d’ufficio. Rischia fino a 8 anni di reclusione. (giornalistitalia.it)

Agostino Pantano: “Ho fatto solo il mio lavoro di giornalista”

TAURIANOVA (Reggio Calabria) – Quando ho saputo di andare a processo per il reato di ricettazione ho avuto due reazioni. La prima è stata istintiva-protettiva: ho pensato a nominare un avvocato, apprendendo che rischierei fino a 8 anni di carcere e che, per il tipo di fatto contestato, chi ha indagato sul mio conto per 4 anni può aver richiesto l’autorizzazione a intercettare il mio telefono.
La seconda è stata di tipo logico-razionale: so di non avere «acquistato ovvero ricevuto» notizie per «procurarmi un profitto», al contrario di quello che leggo nel capo di imputazione. Sono sereno perché non sono un ricettatore di informazioni e non considero la notizia una refurtiva in possesso di qualcuno.
So di altri colleghi indagati per questo reato, che evidentemente rappresenta una nuova frontiera dell’assalto alla libertà di stampa. In vista della prima udienza del 16 aprile, è maturata però una terza reazione, questa volta emotiva-professionale, dovuta alla lettura delle carte e alla messa a punto delle due premesse: se rischio il carcere e il controllo della mia vita per un’indagine che va contro la logica e la Costituzione, mi sono detto che andrebbe certamente spiegato all’opinione pubblica perché, e come, un giornalista può essere messo sotto tiro e con modi raffazzonati.
Opera di denuncia a cui si è già dedicato il segretario del sindacato dei giornalisti, Carlo Parisi, con prese di posizione pubbliche, di cui lo ringrazio.
Arrivo al processo per via di un evidente accanimento, che tenta di annichilire la funzione sociale della mia professione e ingolfa l’amministrazione della giustizia per una lite che si poteva evitare e che non si è evitata, io credo, per il motto “colpirne uno, per educarne cento”.
Il processo che subirò nasce da una querela per diffamazione sporta contro di me, nel lontano 2010, da un ex amministratore di un grosso centro calabrese. Il politico, tuttora in auge, si sentiva diffamato da 7 articoli nei quali ho richiamato molti passaggi inediti della relazione che aveva portato allo scioglimento per mafia del consiglio comunale del suo paese.
Il gip di Cosenza, un anno dopo, archiviò il caso e scrisse che io non avevo diffamato nessuno, riconoscendo il mio legittimo «esercizio del diritto di cronaca e di critica politica, sussistendone i presupposti di interesse pubblico, verità della notizia e continenza».
Il giudice con una mano accoglieva la richiesta della procura cosentina e con l’altra, però, trasmetteva gli atti alla stessa procura chiedendole di indagarmi per ricettazione. Nella querela scritta molto bene erano indicati ben 5 articoli del codice penale che a detta del mio ex accusatore avrei disatteso e, tra questi, però non figurava il 648 che è quello che punisce la ricettazione. Quel gip, e ora la Procura di Palmi, invece sospettano che io abbia ricettato delle notizie perché le informazioni contenute nei 7 pezzi – considerate dal giudice funzionali «all’esercizio del diritto di cronaca» – erano attinte da un documento, la relazione della commissione d’accesso, classificato come «riservato».
Toccherà al mio avvocato dimostrare che ho semplicemente dato notizie, peraltro lette da un atto che ebbe effetti amministrativi e, perciò, evidenti. Toccherà a lui ricordare che quel tipo di «relazione riservata» finisce nei libri (vedi il caso di Reggio) e tutti i giornalisti scrivono sugli scioglimenti: più che un segreto d’ufficio, sembra un segreto di pulcinella.
Vorrei segnalare due ultime illogicità che sembrano dimostrare come si sia di nuovo davanti all’ennesima lite temeraria con effetto intimidatorio sul diritto di cronaca. Il gip cosentino scrive della mia «consapevolezza di ricevere notizie segrete, in quanto, se fossero state ostensibili, le avrebbe normalmente richieste o avrebbe indicato chi, pubblico ufficiale, gliele aveva fornite».
Se quando mi hanno interrogato avessi detto una bugia, io oggi non sarei sotto processo e lo sarebbe chiunque io avessi indicato come il mio rifornitore di refurtiva. Siccome ho messo a verbale che avevo solo avuto la possibilità di visionare il «documento riservato», non segreto come sostiene il gip, e siccome per obbligo deontologico non ho rivelato le modalità della mia presa d’atto, io sono il presunto ricettatore di un furto il cui autore non è stato mai trovato: a questo punto spero che non cambino l’imputazione e non mi accusino direttamente di essere io il ladro. (Paradossalmente, però, in tale ipotesi il rischio sarebbe più lieve: da 6 mesi a 3 anni di reclusione – ndr).
Io potrei, per assurdo, ora precisare la mia versione e dire: guardate che ho letto le carte quando gli usceri in prefettura facevano le fotocopie. Vatti a ricordare quale fu l’impiegato addetto, quale funzionario aveva il dovere di evitare fughe di notizie, quale guardia aveva il compito di seguirmi nei mie spostamenti negli uffici. Ma io non voglio dire bugie e non le dirò: ho saputo delle cose e le ho scritte perché avevo il diritto e il dovere di scriverle. Punto.
Il gip ha escluso che io possa essere indagato per diffusione del segreto d’ufficio – «commesso da ignoti», scrive – ma ugualmente ritiene che io abbia «sfruttato le informazioni illecitamente ottenute per un suo fine di profitto, ossia la realizzazione degli articoli costituenti la sua attività professionale».
È evidente il sistema con cui si tenta di imbavagliare il giornalista per il futuro, minacciandolo di conseguenze penali ben più gravi, dopo avergli riconosciuto «l’esercizio del diritto di cronaca» e aver ammesso che egli è stato mosso dalla «sua attività professionale». Può un fatto dirompente come uno scioglimento per mafia, rimanere un fatto «riservato» se poi il presidente della Repubblica trae spunto per varare un decreto ?
Ma l’altra cosa che mi lascia perplesso è che chi mi accusa ha proposto di sentire due testimoni e, fra questi, c’è anche l’ex amministratore, il mio già accusatore. Francamente pensavo ad un elenco testi più articolato: chi mi ha denunciato 5 anni fa per diffamazione, a rigore di logica e se il Tribunale accoglierà la sua deposizione, dovrebbe poter dire che un giudice ha già stabilito che non l’ho diffamato e che non ho rubato notizie coperte dal segreto d’ufficio. Per il resto, dall’accusa di ricettazione, mi saprò difendere anche senza i suoi ricordi.

Agostino Pantano

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