CHIETI – «Aver acquisito la tessera professionale non significa aver esaurito il percorso di conoscenza che, invece, è inesauribile per tutta la vita. Un concetto, per i giornalisti, ancora difficile da digerire che ci impone di insistere affinché l’evoluzione che, negli ultimi dieci anni ha rivoluzionato il mondo dell’informazione anche con l’avvento dell’intelligenza artificiale, non ci faccia perdere di vista “la grammatica del giornalista”, quel Codice Etico che, non dimentichiamolo, siamo stati noi stessi a darci».
Nessuno meglio di Stefano Pallotta, storico presidente dell’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo e neo eletto consigliere nazionale, avrebbe potuto esprimere meglio il valore dell’alta formazione professionale – quella vera, che serve a crescere e non a parlarsi addosso – per salvaguardare e rilanciare il giornalismo professionale di qualità. Quello basato sull’uso del «metodo critico delle fonti, ovvero la capacità di saper distinguere quelle vere da quelle non verificate. La rinuncia all’applicazione del dubbio metodico, ovvero di mettere in dubbio tutto, ha infatti finito per farci bere un po’ tutto».
Introdotto da Donato Fioriti, fiduciario di Chieti e consigliere nazionale della Figec Cisal, che che ha più volte sottolineato «l’utilità della formazione professionale», Pallotta ha aperto, tra gli applausi di un gremito Museo d’Arte Costantino Barbella di Chieti, il corso di formazione su “Carta di Treviso, Codice rosso e femminicidio: aspetti comunicativi, psicologici e giuridici”, organizzato dall’Ordine dei giornalisti d’Abruzzo con il patrocinio di Comune, Figec Cisal, Achilliani, Cruc Regione Abruzzo, Mosac, Rea, Ucsi e Unirai.
Puntando l’indice sul «processo di precarizzazione dell’informazione che sta rendendo molto difficile l’attività giornalistica», Pallotta ha esaltato il valore della formazione ammonendo: «Se rinunciamo a questi principi, che rappresentano la capacità di saper distinguere le fonti vere da quelle false, che poi producono le cosiddette fake news, spianiamo la strada alla disinformazione piegata a interessi politici, commerciali, economici. Rinunciamo, quindi, alla deontologia professionale da applicare, soprattutto, in tutte quelle situazioni di debolezza e di violazione della dignità delle persone che, invece, devono essere assolutamente salvaguardate perché se c’è un diritto diritto di cronaca, uno stop immaginario è quello di fermarsi e dare la precedenza alla dignità della persona». Quindi, in relazione al tema del seminario, ha chiosato: «Dietro al patriarcato e al concetto di femminicidio ci sono due millenni di condizionamenti culturali, conseguenze sociali, condizionamenti religiosi che rendono oggettivamente difficile, anche dal punto di vista giornalistico, superare problemi molto seri che vanno affrontati con la massima serietà e con l’assoluto rispetto della persona».
Un filo conduttore, quello del rispetto della persona, al centro di tutti gli interventi e nelle conclusioni del segretario generale della Figec Cisal, Carlo Parisi, il quale ha ricordato che «compito del giornalista non è quello di parlarsi addosso, prevaricare l’interlocutore, imporre le proprie convinzioni, esprimere frettolosi giudizi che spesso suonano come condanne, ma ricercare la verità oggettiva dei fatti, studiando attentamente le carte e, soprattutto, ascoltando la gente». «Ecco, è la capacità di ascoltare – ha evidenziato Carlo Parisi – che la nostra categoria ha perso, in un momento storico nel quale la solitudine rappresenta una delle cause principali della balcanizzazione del pensiero. E in una società che vede l’individuo sempre più solo i soggetti più deboli finiscono, purtroppo spesso, per diventare facile preda dell’Io dominante che si identifica nei modelli sbagliati propalati da chi, privo di ogni scrupolo, cerca di imporre il pensiero unico con modelli piegati esclusivamente ai propri interessi culturali, economici e politici. L’Intelligenza artificiale – ha aggiunto il segretario generale della Figec Cisal – se da un lato ha aperto nuovi orizzonti per lo sviluppo tecnologico e produttivo, con enormi vantaggi soprattutto in tema ambientale, energetico e sanitario, dall’altro ha un rovescio della medaglia devastante, non solo per gli sconvolgenti effetti sulle professioni intellettuali, ma anche in tema di economia e impatto sociale».
«Attualmente – ha spiegato Parisi – la rete è dominata delle cinque grandi multinazionali dell’IT indicate dall’acronimo Gafam (Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft) che potrebbero ridursi o allearsi con il concreto rischio di annientare il pluralismo, favorire il pensiero unico e, di conseguenza, diffondere un’informazione piegata agli interessi dominanti. È la dittatura dell’algoritmo che condiziona, orienta e piega le menti sempre meno allenate al pensiero critico».
Nel corso dei lavori si è parlato anche delle interazioni tra i diritti dell’infanzia e dell’adolescenza con i disagi provocati ai minori e ai soggetti fragili; di famiglie sembrate; di comportamenti mediatici non tutelanti delle vittime e, indirettamente, di quanti subiscono violenza.
In apertura, il sindaco di Chieti, Diego Ferrara, dopo essersi soffermato sugli attuali scenari di guerra, stigmatizzando «la sproporzione della reazione israeliana su Gaza rispetto al terrorismo di Hamas», ha parlato di Carta di Treviso, Codice rosso e femminicidio dicendosi «colpito dalla consapevolezza dell’orrore che, invece di suscitare indignata reazione, porta a una certa assuefazione». Lapidaria la sua conclusione: «Cerchiamo di non fare vivere ai nostri figli e nipoti un nuovo medioevo perché oggi il pericolo è concreto».
Per Angelo Radica, sindaco di Tollo e amministratore della Provincia di Chieti, «dalla crisi valoriale che genera violenze sui minori e femminicidi escono sconfitti la Famiglia e la Scuola e saranno necessari tempi lunghissimi per ripristinare corrette relazioni ed equilibri attraverso un lavoro paziente di ricucitura soprattutto del tessuto sociale». Quanto alla crisi del giornalismo, per Radica «internet è una prateria incontrollabile e l’autoregolamentazione dei giornalisti non basta. Ci vogliono nuovi strumenti legislativi».
Il giornalista Oscar D’Angelo, presidente dell’Associazione Achilliani Aps, ha richiamato l’attenzione sulla «originale trasposizione delle vicende epiche della Guerra di Troia sull’attualità contemporanea», auspicando la necessità di «incidere nei meccanismi culturali e di segmentazione sia in relazione al concetto di “pietas” che a quello di “elaborazione del lutto”».
La criminologa Rossella Di Carmine (presidente dell’Istituto Internazionale di Criminologia Forense), criticando il fatto che «i centri antiviolenza danno aiuto solo alle donne, con il rischio di creare un altro stereotipo», ha invocato il «riallineamento, a prescindere dal genere, dell’impalcatura giuridica di contrasto alla violenza di genere prevedendo fondi utili all’offerta formativa di tutti i pubblici ufficiali deputati alle verifiche e agli accertamenti sui casi di violenza, estensione dei fondi, attualmente previsti solo per i Centri Anti Violenza Femminili (gli unici che possono garantire il gratuito patrocinio), ai Centri Antiviolenza che assistono anche uomini, transgender, omosessuali, al fine di evitare inevitabili speculazioni».
«Bisogna essere chiari – ha sottolineato Di Carmine – e dire che, seppure in percentuali diverse, vi sono anche uxoricidi, sottolineare che il fenomeno narcisista interessa pure molte donne, riconoscere i problemi dei papà separati e ascoltare anche le loro esigenze. Insomma, il dibattito non può essere sbilanciato perché si rischia la criminalizzazione dell’uomo in quanto tale».
La giornalista Angela Trentini (Tgr Abruzzo e consigliere nazionale dell’Ucsi), ripercorrendo la sua trentennale esperienza in Rai, ha ricordato che «la cronaca impone di andare sul posto delle violenze dove il primo giorno si raccolgono informazioni e si delineare la scena del crimine, ma il difficile arriva dopo, quando bisogna approfondire i fatti, farsi domande e porsi dei dubbi senza retorica e senza assecondare la tv del dolore che getta nel tritacarne, massacrandole, sia le vittime che i familiari. Senza contare che, purtroppo spesso, i giornalisti in prima linea sono i meno garantiti, senza contratto e poco tutelati sindacalmente, quindi impossibilitati a scegliere il modo con cui trattare le notizie con gli occhi disincantati del cronista».
Concetto ribadito da Candida De Novellis, direttore di AllnewsAbruzzo e fiduciaria Figec Cisal di Pescara: «Noi ci mettiamo il cuore, ma spesso è il cuore quello che ci manca. Questo accanimento sulla notizia, da approfondire con aspetti che si potrebbero evitare, si verifica perché forse manca un po’ il cuore. Sarebbe, invece, utile metterci dall’altra parte, quella di chi subisce violenze ed effetti da un certo tipo di diffusione delle notizie».
Angela Curatolo, direttore de “Il Giornale di Montesilvano”, dal canto suo ha sottolineato che «quando ci troviamo di fronte a relazioni tossiche non dobbiamo usare termini che rischiano di influenzare negativamente il giudizio di chi legge o ascolta. A partire da quando si usa “amore” in un contesto dove amore non c’è, ma solo relazioni tossiche».
Chiara Coletta, psicologa e psicoterapeuta, nel soffermarsi sugli aspetti psicologici della violenza sulle donne, ha denunciato il «business dei centri antiviolenza che impongono la frequenza ai propri corsi per svolgere attività di volontariato e degli avvocati che chiedono soldi in nero». Invocando «controllo su chi deve lavorare a tutela delle vittime» si è, quindi, soffermata sulla «declinazione della violenza di genere (fisica, psicologica, sessuale, economica), sulle cause (nella vittima:
dipendenza affettiva e crollo dell’autostima; nel violento: narcisismo patologico da condizione infantile di scarsa considerazione o, al contrario, di eccessiva considerazione da parte dei genitori). Ed ancora le fasi della violenza: accumulo di tensione, esplosione della violenza fisica e sessuale, pentimento, apparente propensione a prendersi cura della vittima».
«In genere – ha spiegato Coletta – il narcisista è più portato rispetto ad altri profili ad esercitare una violenza che si annuncia subdola, egli fa leva su doti estetiche, elevata cultura, capacità affabulatorie, regali, il tutto in un contesto di corteggiamento serrato, per poi scomparire e generare nella vittima sensibili di colpa e vere proprie sindromi di Stoccolma. Il lavoro di recupero della psicoterapia sulla vittima, che sovente accusa disturbi post-traumatici da stress, passa attraverso il metodo Mdr, consistente nella desensibilizzazione del trauma subito e nella di esso ricollocazione nel passato».
L’avvocato Laura Castellano, analizzando il caso Cecchettin-Turetta, ha affrontato il tema della distinzione tra ambiti giuridico ed etico, ovvero sulla percezione pratica della sentenza alla pena dell’ergastolo con esclusione dell’aggravante della crudeltà. Ricordando che «la Cassazione ha sancito che Turetta non è stato crudele nell’uccidere perché va distinto il reato dalla nostra emotività morale», l’avv. Castellano ritiene «naturale che il problema che solleva la sentenza è quello che può fare la legge e quello che può fare la nostra cultura. Si è arrivati a Codice rosso, poi a quello rafforzato e adesso al femminicidio, ma anche questo decreto è oggetto di forte critica perché ha valore simbolico in quanto cerca di modificare la nostra cultura e portare maggior rispetto alla donna. Potrebbe, però, essere tacciato di incostituzionalità perché davanti alla legge non si può fare distinzione tra uomo e donna».
«Il problema – ha spiegato l’avvocato Castellano – è anche culturale perché, mancando una professionalizzazione delle forze dell’ordine, tante donne vengono convinte a non denunciare o si sottovalutano le loro parole e ciò rende complessa l’applicazione concreta della normativa». Ha, quindi, ricordato «i presidi di legge nei casi di maltrattamenti: ammonizione del Questore, querela, irretrattabilità della querela, adeguamenti nostra legislazione alla normativa comunitaria, addebiti della Corte di Giustizia Internazionale non nei contenuti legislativi ma nella capacità di applicazione delle norme».
Laura Castellano, infine, ha evidenziato che «recentemente l’Italia è stata sanzionata per un caso di prescrizione e per un caso di omesso rispetto delle modalità applicative del braccialetto elettronico. Ed ancora che i ruoli del Pubblico Ministero sono carenti ed il Pm è l’unico a dover raccogliere, entro tre giorni dal fatto, la deposizione delle donne vittime di violenza».
Anche il giornalista Andrea Morin, del quotidiano Il Centro, sui casi da Codice Rosso ha parlato di «informazione imparziale anche dal punto di vista della visibilità territoriale. Ci siamo occupati di una violenza che ha interessato una cittadina di Pescara sulla metropolitana di Milano: è stata aggredita da un maniaco che, denudatosi, l’ha presa a sprangate con serie conseguenze psico-fisiche, eppure la stampa nazionale non ne ha fatto cenno».
Prima delle conclusioni di Carlo Parisi, è toccato alla giornalista Roberta Spinelli, inviata del programma di Rai 1 “Storie Italiane”, affrontare il tema del “lavoro sul campo oltre il fatto di cronaca”.
«Quando arriviamo su una scena di femminicidio, non stiamo solo documentando un evento: stiamo raccontando una vita spezzata. Il rischio più grande è cedere alla tentazione della semplificazione: “un raptus” (che non esiste), una “lite degenerata”, “una tragedia della gelosia”. Ecco, usare frasi come queste – ha sottolineato l’inviata di Storie Italiane – significa svuotare il senso della violenza, deresponsabilizzarla. Nel caso di Ilaria Sula, ad esempio, molti titoli hanno parlato di “delitto passionale”. Ma non c’è nulla di passionale nel controllo, nella premeditazione, nella violenza reiterata».
«La seconda violenza – ha spiegato Spinelli – arriva spesso dai media. Succede quando si mette in discussione il comportamento della vittima: “Perché non se n’è andata?”, “Era troppo gelosa”, “Lo aveva provocato”. Succede quando si pubblicano foto che stridono con la tragedia, o si rilanciano testimonianze parziali: “Era un bravo ragazzo, non ce lo aspettavamo”. In molti casi abbiamo assistito a narrazioni che, seppure involontariamente, spostano l’attenzione dalla responsabilità dell’uomo ai presunti “errori” della donna. Questo non è solo sbagliato: è pericoloso».
Insomma, il linguaggio giornalistico – ha detto ancora l’inviata di Rai 1 – non è mai neutro. Scrivere “uccisa per gelosia” è molto diverso da “uccisa da un uomo che non accettava la sua libertà”. Parlare di “femminicidio” è un atto politico e giornalistico: significa riconoscere una struttura, non un caso isolato. Evitiamo, quindi, parole come “raptus”, “tragedia familiare”, “era troppo bella”, “lo amava ancora”. Preferiamo: “violenza sistemica”, “precedenti denunce”, “contesto di controllo e manipolazione”.
Gli errori più comuni sono, infatti: titoli sensazionalistici (“massacrata per amore”), dettagli irrilevanti e morbosi, interviste non etiche a familiari sotto shock, pubblicazione di immagini inappropriate, mancanza di ascolto dei centri antiviolenza». «Il nostro lavoro – ha ammonito Roberta Spinelli – non è solo “raccontare i fatti”, ma contribuire a una cultura informata, consapevole, giusta.
Quando parliamo di femminicidio, raramente i titoli si concentrano sui figli orfani speciali che la Carta di Treviso deve tutelare come tutti i minori, i soggetti deboli bisogna rispettare la riservatezza e la dignità delle persone coinvolte. Evitare, dunque, ogni forma di spettacolarizzazione, proteggere i minori da ogni esposizione mediatica dannosa, scegliere con cura fonti, immagini, titoli».
«La carta – ricorda Spinelli – ci indica una strada: quella del giornalismo etico, che non cerca lo scoop ma la verità, che non ferisce ma illumina. Spesso si dice: “non c’erano segnali”. Ma non è vero. I segnali c’erano, solo che non li abbiamo voluti riconoscere. Viviamo in una società che ancora normalizza: la gelosia come prova d’amore, il controllo come cura, la manipolazione come attenzione, il possesso come passione».
Insomma, ha concluso l’inviata di Storie Italiane, «frasi come “sei mia”, “non puoi uscire vestita così”, “senza di me sei niente” non sono parole d’amore. Sono le fondamenta di una violenza che cresce nel silenzio. In ogni caso di femminicidio, ci sono molte vittime: la donna che ha perso la vita; i figli che hanno perso tutto. E c’è una società intera che rischia di voltarsi dall’altra parte. Il giornalismo – sottolinea Roberta Spinelli – può accendere la luce. Con rispetto. Con consapevolezza. Con coraggio». (giornalistitalia.it)
Perfettamente d’accordo sui contenuti e complimenti per la precisione e la completezza dell’articolo.
Un articolo serio che serve a ponderare i fatti con lucidità.