ROMA – Giornalisti, attenzione a misurare bene i termini delle parole! Definire erroneamente in un articolo o in una notizia giornalistica diffusa tramite agenzie di stampa, quotidiani, periodici, radio, tv e online una persona “imputata” di un reato, anziché solo “indagata” di un reato, fa scattare in suo favore la possibilità di ottenere dal giudice un rilevante risarcimento da diffamazione a mezzo stampa in sede civile.
Lo hanno stabilito le sezioni unite civili della Cassazione, presiedute da Pasquale D’Ascola, con sentenza n. 13200 del 18 maggio 2025.
Si è così definito, dopo 12 anni, un lungo contenzioso connesso alla pubblicazione nell’edizione on line del 24 giugno 2013 del settimanale “L’Espresso” dell’articolo intitolato “Truffa del super finanziere”, in cui Alessandro Daffina, figura di spicco della finanza italiana ed internazionale (era all’epoca Ceo della Rothschild & Co), veniva indicato nel testo come imputato per truffa, mentre egli era stato solo indagato per tentata truffa.
Daffina aveva, quindi, lamentato una grave lesione del suo diritto all’onore, alla reputazione e all’immagine. Di qui la sua richiesta di ottenere, da un lato, la condanna in solido de L’Espresso, dell’articolista L.D. e del direttore M.B. al risarcimento dei danni non patrimoniali da liquidare anche in via equitativa, mentre, dall’altro, la condanna del solo giornalista autore dell’articolo al pagamento di un’ulteriore somma a titolo di riparazione pecuniaria in base all’art. 12 della vecchia legge sulla stampa n. 47 del 1948.
Nel 2016 il tribunale di Roma respinse le sue richieste. Ma sei anni dopo la Corte d’appello della capitale ribaltò il verdetto condannando, invece, L’Espresso, il direttore e l’articolista ad un risarcimento dei danni non patrimoniali liquidati in 25 mila euro in applicazione delle cosiddette “tabelle milanesi”, nonché il solo articolista ad un ulteriore indennizzo di 5 mila euro come riparazione pecuniaria.
Su ricorso del settimanale e dei due giornalisti il caso è finito al “Palazzaccio” di piazza Cavour dove è stato ora risolto il contrasto giuridico tra la giurisprudenza delle Sezioni civili e quelle penali della Suprema Corte.
La delicata questione, considerata di massima e particolare importanza al “Palazzaccio” di piazza Cavour, era stata rimessa dalla I sezione prima civile con ordinanza interlocutoria n. 12239 del 2024 alla Corte presieduta da Margherita Cassano.
Nelle 35 pagine della motivazione della decisione, redatta dal consigliere Enzo Vincenti, le sezioni unite civili della Cassazione hanno affermato questo nuovo principio di diritto: “«in tema di diffamazione a mezzo stampa, l’esimente del diritto di cronaca giudiziaria, qualora la notizia sia mutuata da un provvedimento giudiziario, non è configurabile ove si attribuisca ad un soggetto, direttamente o indirettamente, la falsa posizione di imputato, anziché di indagato (anche per essere riferita un’avvenuta richiesta di rinvio a giudizio, in luogo della reale circostanza della notificazione dell’avviso di conclusione delle indagini preliminari di cui all’art. 415-bis c.p.p.) e/o un fatto diverso nella sua struttura essenziale rispetto a quello per cui si indaga, idoneo a cagionare una lesione della reputazione (come anche nel caso di un reato consumato in luogo di quello tentato), salvo che il giudice del merito accerti che il contesto della pubblicazione sia tale da mutare, in modo affatto chiaro ed inequivoco, il significato di quegli addebiti altrimenti diffamatori».
La Suprema Corte ha anche precisato che: «La sanzione pecuniaria prevista dall’art. 12 della legge sulla stampa n. 47 del 1948 si aggiunge e non si sostituisce al risarcimento del danno causato dall’illecito diffamatorio. Essa, dunque, presuppone la sussistenza di tutti gli elementi costitutivi del delitto di diffamazione». (giornalistitalia.it)
Pierluigi Roesler Franz
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