
Gianlorenzo Franzì, Michele Geria e Carlo Parisi ascoltano l’intervento di un ospite della Casa Circondariale di Reggio Calabria Arghillà
REGGIO CALABRIA – “Dignità” è la parola che ha risuonato nel cine-teatro della Casa Circondariale di Reggio Calabria Arghillà, facendo da filo conduttore alla proiezione del cortometraggio “Siamo a’mmare”, inserita nella 19ª edizione del Reggio Calabria Film Fest.
«L’iniziativa rientra nell’ambito della storica rassegna “Cinema dentro e fuori le mura” che si propone di dare voce a chi vive privato della libertà personale, con l’obiettivo di «favorire la cultura del rispetto dei diritti umani anche e sopratutto in carcere, della rieducazione, reinserimento e dell’integrazione sociale dei detenuti attraverso la bellezza e leggerezza dell’arte del cinema, che trasmette speranza”, ha spiegato l’avvocato Giovanna Suriano, referente della speciale sessione del Festival.
Il cortometraggio, diretto da Alessio Genovese e scritto e interpretato dai detenuti della Casa di reclusione “Calogero di Bona – Ucciardone” di Palermo, è stato introdotto dal direttore artistico del Reggio Film Fest, Gianlorenzo Franzì, che ne ha illustrato il valore:

“Siamo a’mmare” di Alessio Genovese (Zabbara Ets): Turi è cresciuto con il padre in carcere. Adesso che ha compiuto 18 anni, sente che per lui è arrivato il momento della maturità e prova a convincere la sua ragazza Rosa ad abbandonare la scuola per andare a vivere con lui. Di fronte alla sua insistenza, lei si rifiuta con tutta se stessa e trova la forza di allontanarlo. Per Turi è la conferma di essere nato sotto una cattiva stella: condannato a vivere una vita senza amore. Diventa aggressivo e spregiudicato, cercando di prendersi con la forza quello che pensa che gli spetti. In un gioco a specchio, i suoi passi ripercorrono quelli del padre. In carcere, padre e figlio dovranno affrontare le ombre del proprio passato prima di riconoscersi amore reciproco.
«Una storia dura, quella di Turi, giovane segnato dall’arresto del padre, cresciuto lontano dalla propria città e attratto dalla criminalità fino a finire nello stesso carcere paterno. Un racconto che affronta il rapporto tra carcere e società, la possibilità di riscatto e la necessità di spezzare il ciclo della recidiva».
Il progetto, coordinato dal sociologo Daniele Saguto e realizzato dall’Associazione Zabbara Ets, ha coinvolto 25 detenuti in un percorso di scrittura cinematografica partecipativa, durato due anni. I partecipanti hanno dato vita a una storia comune, trasformandosi in autori e attori di un’opera che affronta temi cruciali come il rapporto tra carcere e società, la mancanza di riscatto e la ciclicità generazionale della pena.
Conclusa la proiezione, il direttore generale del festival, Michele Geria, ha ricordato come il cinema sia già entrato più volte nelle carceri grazie a questa iniziativa: «L’evento che unisce cinema, cultura, diritti e impegno sociale in una sinergia concreta con le istituzioni, nel corso delle varie edizioni del FilmFest, è già entrato in altri penitenziari calabresi: Palmi, Locri, Vibo Valentia e Cosenza. Ha mantenuto, tuttavia, il cuore dell’attività nella Casa Circondariale di Reggio Calabria, in un percorso costante che ha sempre cercato di mettere in dialogo il mondo di “dentro” con quello di “fuori”».
«Ero carcerato e siete venuti a trovarmi». Citando il versetto 25,36 del Vangelo secondo Matteo, il giornalista Carlo Parisi, direttore del quotidiano Giornalisti Italia e segretario generale della Figec Cisal, si è rivolto alla platea della Casa Circondariale di Reggio Calabria “Arghillà” parlando al cuore dei detenuti che, «seppur nel rigore e nella certezza della pena, in carcere non devono vivere un’esistenza sospesa, ma trovare un luogo che non ne calpesti e mortifichi la dignità ma ne favorisca il reinserimento nella società. Un luogo nel quale scontare il proprio debito con la giustizia senza perdere la fiducia nella speranza di poter voltare pagina».
«Le nostre certezze, – ha sottolineato Parisi – fortemente condizionate dalla narrazione che spesso si fa delle pene, soprattutto in occasione di efferati delitti che ci spingono a invocare il giustizialismo, cominciano a vacillare nel momento in cui ci si avvicina fisicamente all’istituto. Papa Francesco, da arcivescovo di Buenos Aires, andava spesso a visitare i carcerati chiedendosi sempre: “Perché loro e non io? Pensare a questo mi fa bene, poiché le debolezze che abbiamo sono le stesse. Perché è caduto lui e non io? Per me questo è un mistero che mi fa pregare e avvicinare ai carcerati”.

29 marzo 2018: Papa Francesco nel Carcere di Regina Coeli per la Messa in Coena Domini lnel corso della quale ha celebrato il rito della Lavanda dei piedi con 12 reclusi
Una vicinanza fisica – ha aggiunto Parisi – che è dovere di ognuno di noi trasformare in vicinanza psicologica, per far comprendere all’esterno il dramma vero di chi ha sbagliato, viene giustamente privato della libertà personale, ma non per questo deve essere mortificato nella dignità e destinato alla perenne infamia anche se condannato per piccoli reati o addirittura in attesa di giudizio o vittima di un errore giudiziario».
«Grazie ai promotori di “Cinema dentro e fuori le Mura” – ha concluso Carlo Parisi – che da vent’anni portano avanti l’iniziativa; grazie al direttore Rosario Tortorella per l’ampia disponibilità offerta a promuovere sempre più iniziative all’interno del carcere per tenere forte e viva la voglia di riscatto;
grazie all’avvocato Giovanna Russo, Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale, che ha patrocinato l’iniziativa e che, quotidianamente, si batte con coraggio e con fede dipingendo con i colori dell’anima il quadro della speranza per dare soluzioni concrete alle ataviche e delicatissime problematiche degli istituti di pena; ma grazie soprattutto a voi, ospiti di questo istituto, che con le vostre numerose e appassionate testimonianze ci avete fatto rivivere le parole di Papa Francesco: “Perché loro e non io?”. Ce ne dobbiamo ricordare tutti. Lo Stato che non può relegare 6-8 esseri umani in una cella con un solo bagno e letti a castello a tre piani di cui l’ultimo a pochi centimetri dal soffitto, ma soprattutto senza la possibilità di svolgere lavori socialmente utili a tenere viva la speranza e la possibilità di avere una nuova opportunità. Specialmente a queste latitudini, dove l’illegalità diffusa, la sopraffazione mafiosa e, soprattutto lo sfruttamento e la carenza di lavoro continuano a costituire la più autentica istigazione a delinquere».
Coinvolto nel dibattito anche il giornalista Francesco Chindemi, redattore di Avvenire di Calabria: «Mi sarei dovuto limitare a raccontare in terza persona questa giornata, ma essendo stato interpellato in qualità di cronista, non ho potuto sottrarmi al confronto». Chindemi ha evidenziato quanto sia difficile, per un giornalista, riuscire a cogliere il lato emotivo di chi vive la detenzione.
«Spesso – ha spiegato – ci soffermiamo soltanto sui numeri: il sovraffollamento, le celle inadeguate, le statistiche. Ma una narrazione che si limiti a questo non basta. Occorre raccontare ciò che va oltre, ciò che si nasconde dietro il muro che separa l’esterno dall’interno del carcere: le persone, le storie, la realtà concreta della vita quotidiana. Non soffermarsi solo all’aspetto giudiziario».
Dal canto suo, l’avvocato Giovanna Russo, garante dei diritti delle persone private della libertà personale, ha dichiarato di non poter che «essere riconoscente e grata per queste attività che, con non pochi sforzi, vengono portate avanti anche qui, nella città reclusa».

L’avvocato Giovanna Russo, Garante regionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale
Per il Garante della Regione Calabria, infatti, «si tratta di un’attestazione importante di attenzione nei confronti dei diritti umani e, in particolare, dei diritti delle persone private della libertà personale». Evidenziando «i meriti che nell’emergenza del quotidiano non emergono, ma che sono frutto di impegno costante di tutti gli operatori penitenziari e del personale medico sanitario», il Garante ricorda che
«Arghillá è un istituto molto complesso e doveva essere la Bollate del meridione. Oggi affronta delle problematiche delicatissime, ataviche ed è un istituto che preoccupa molto gli addetti ai lavori. Malgrado gli sforzi profusi dall’amministrazione in loco, serviranno investimenti adeguati a realizzare le più opportune progettualità in termini di giustizia e sicurezza.
Rivolgendo un personale riconoscimento al personale di polizia penitenziaria, che compie importanti sforzi per la tenuta della sicurezza che è baluardo per la garanzia dei diritti e della dignità delle persone, l’avvocato Russo insiste sulla strada del «reale investimento per realizzare il welfare penitenziario nel quale crediamo».
«L’aumento di risorse umane all’interno delle carceri calabresi – ricorda – è il baluardo primo per la garanzia dei diritti, della giustizia e quindi di costruzione di quella legalità concreta che distrugge le maglie della criminalità organizzata sulla quale non intendiamo indietreggiare di un solo passo e che nelle nostre carceri imperversa e distrugge chi vorrebbe davvero una seconda chance».
Dal dibattito, intenso e composto, con i reclusi sono emerse speranze, ma anche preoccupazioni. «Chiediamo una seconda possibilità – ha detto uno di loro – non vogliamo essere giudicati solo per il reato commesso».
«Si parla tanto di umanizzazione della pena – ha aggiunto un altro – ma occorre poter intraprendere reali percorsi formativi per reinserirci nella società». Non sono mancate citazioni a papa Francesco, che più volte ha richiamato il tema della dignità dei detenuti, «spesso, però, rimanendo inascoltato».
C’è chi ha messo in luce le difficoltà del “dopo”: «Se un’impresa assume chi ha scontato una pena, rischia un’interdittiva», ha denunciato un recluso. E un imprenditore detenuto ha rilanciato: «Appena usciti, l’alternativa è andare via. Le istituzioni devono fare di più sulla riabilitazione».
Il direttore della Casa Circondariale, Rosario Tortorella, ha sottolineato come iniziative di questo tipo siano «fondamentali perché permettono alla dimensione sociale esterna di entrare in carcere e, allo stesso tempo, di acquisirne maggiore consapevolezza».
«Una società consapevole della realtà del carcere – ha osservato – non solo contribuisce al suo miglioramento, ma fa percepire ai detenuti un’attenzione che può spingerli verso un cammino di crescita interiore e, in prospettiva, di reinserimento sociale». Tortorella ha ricordato che chi si trova dietro le sbarre lo è per aver violato la legge, ma che il carcere non può ridursi a una mera dimensione afflittiva: «Deve diventare anche occasione di riscatto, luogo in cui maturare competenze e progetti di vita».
Secondo il direttore della Casa Circondariale Reggio Calabria Arghillà, tuttavia, questo percorso non può essere affidato soltanto all’istituzione penitenziaria: «Il carcere appartiene alla società – ha ribadito – e la società civile deve farsi carico di arricchire questo servizio dello Stato con contenuti che aprano al miglioramento collettivo». Non basta, quindi, organizzare eventi isolati: occorre avere «un respiro lungo», cioè immaginare iniziative capaci di offrire ai detenuti possibilità concrete e continuative.
«Le pene non hanno durata infinita – ha concluso Tortorella – e lo spazio e il tempo del carcere non devono essere percepiti come una realtà estranea, separata dalla vita sociale, ma come un passaggio che può e deve preparare al ritorno nella comunità».
Alla fine, l’impegno condiviso: rendere stabili appuntamenti che uniscano cinema e giornalismo, strumenti capaci di dare voce a chi vive dietro le sbarre e sogna una seconda possibilità. (giornalistitalia.it)















CONVENZIONI



Bellissima iniziativa, da rifare, da ripetere in altri luoghi di pena, da rivivere dovunque c’è una sbarra che ti tiene lontano dagli amori e dalla vita. Peccato non esserci, sono certo che iniziative di questo peso e di questo livello servano a tutti per crescere meglio, soprattutto a noi cronisti. Molti di noi spesso hanno raccontato il carcere senza mai metterci piede. Non deve più accadere perchè sono certo dentro quelle mura ci siano anche anime perse e desiderose di rinascere. Complimenti infiniti al Garante dei detenuti, l’avvocato Giovanna Russo, perchè credo che, essendo lei una donna, il lavoro oltre le sbarre sia ancora più difficile e pesante. Grazie per questa bella lezione di civiltà.