La Cassazione: legittimo il decreto ingiuntivo per il recupero in caso di transazione

Contributi Inpgi: condannata la Conti Editore

inpgiROMA – La Sezione lavoro della Corte di Cassazione (presidente Umberto Berrino) ha rigettato il ricorso della Conti Editore avverso sentenza della Corte d’appello di Roma che aveva confermato il giudizio di primo grado sul rigetto dell’opposizione al decreto ingiuntivo dell’Inpgi per contributi dovuti su quanto corrisposto in sede di conciliazione ad otto giornalisti suoi dipendenti.
La Cassazione ha, inoltre, condannato la Conti Editore a pagare 11 mila euro di spese legali. La decisione è stata assunta udite le relazioni del consigliere Luigi Cavallaro, del Pm Marcello Matera e degli avvocati della Conti Editore e dell’Inpgi.
Conti Editore aveva fatto ricorso in Cassazione dopo la sentenza depositata il 29 ottobre 2010,con la quale la Corte d’appello di Roma confermava la statuizione di primo grado che aveva rigettato l’opposizione proposta da Conti Editore spa avverso il decreto ingiuntivo con cui le era stato ingiunto di pagare all’Inpgi somme per contributi dovuti su quanto corrisposto in sede di conciliazione ad otto giornalisti suoi dipendenti. L’Inpgi, difesa dall’avv. Bruno Del Vecchio, ’al canto suo, ha resistito con controricorso.
In particolare, Conti Editore ha denunciato “violazione e falsa applicazione dell’art. 12, I. n. 153/1969, come modificato dall’art. 6, d.lgs. n. 314/1997, nonché vizio di motivazione, per avere la Corte territoriale ritenuto che sulle somme corrisposte a titolo di incentivo all’esodo nell’ambito di una transazione novativa dovessero essere versati i contributi”.
Con il secondo motivo, la società ricorrente lamentava “violazione e falsa applicazione dell’art. 2697 c.c. nonché vizio di motivazione, per avere la Corte di merito ritenuto che gravasse su di essa l’onere di provare che le somme corrisposte in occasione delle transazioni di cui al motivo precedente non fossero assoggettate a contribuzione”.
Conti EditoreLa Corte di Cassazione, ritenendo che “i motivi possono essere trattati congiuntamente, stante l’intima connessione delle censure svolte, e sono infondati”, ha obiettato che  “l’art. 12, I. n. 153/1969, nel testo modificato dall’art. 6, d.lgs. n. 314/1997, stabilisce, per quanto qui rileva, che «costituiscono redditi di lavoro dipendente ai fini contributivi quelli di cui all’articolo 46, comma 1, del testo unico delle imposte sui redditi, approvato con decreto del Presidente della Repubblica 22 dicembre 1986, n. 917, maturati nel periodo di riferimento» (comma 1), e che «sono esclusi dalla base imponibile […] le somme corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, nonché quelle la cui erogazione trae origine dalla predetta cessazione, fatta salva l’imponibilità dell’indennità sostitutiva del preavviso» (comma 4, lett. b)”.
Considerato che l’art. 46 (ora 49), T.U. n. 917/1986, prevede a sua volta che sono redditi da lavoro dipendente «quelli che derivano da rapporti aventi per oggetto la prestazione di lavoro, con qualsiasi qualifica, alle dipendenze e sotto la direzione di altri», e che per la loro determinazione si ha riguardo, secondo il successivo art. 48 (ora 51), a «tutte le somme e i valori in genere, a qualunque titolo percepiti nel periodo d’imposta, anche sotto forma di erogazioni liberali, in relazione al rapporto di lavoro», per la Suprema Corte è evidente che, nel disposto normativo, l’assoggettabilità a contribuzione è la regola e l’esclusione un’eccezione, che – giusta il disposto dell’art. 2697, comma 2°, c.c. – dev’esser provata da chi intende farla valere quale fatto impeditivo, modificativo o estintivo dell’obbligo contributivo.
Corte di CassazioneLa Cassazione osserva che “così acclarata la correttezza della ricostruzione operata dalla Corte territoriale in punto di ripartizione dell’onere probatorio, con conseguente infondatezza del secondo motivo di ricorso, resta da dire che non meno infondate sono le censure di violazione di legge di cui al primo motivo: i giudici di merito, infatti, hanno correttamente preso le mosse dall’interpretazione che dell’art. 12, comma 4, lett. b), I. n. 153/1969, ha costantemente dato questa Corte, secondo cui vanno considerate corrisposte in occasione della cessazione del rapporto di lavoro, al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori, non solo le somme conseguite con un apposito accordo per l’erogazione dell’incentivazione anteriore alla risoluzione del rapporto, ma tutte le somme che risultino erogate in occasione della cessazione del rapporto di lavoro ai fini di incentivare l’esodo, potendo risultare ciò sia da una indicazione in tal senso nell’atto unilaterale di liquidazione delle spettanze finali, sia da elementi presuntivi (cfr. in tal senso Cass. n. 23230 del 2004 e, più di recente, Cass. n. 10046 del 2015), e ha quindi proceduto all’interpretazione dei verbali di conciliazione sottoscritti dall’odierna ricorrente con i giornalisti già suoi dipendenti, concludendo che non vi erano in specie sufficienti elementi per affermare che si trattasse di importi effettivamente erogati al fine di incentivare l’esodo dei lavoratori”.
“E se una conclusione del genere – precisa la Suprema Corte – risulta coerente con l’ulteriore principio di diritto enunciato da questa Corte, secondo cui, posto che la volontà negoziale non può incidere sul fatto costitutivo dell’obbligazione contributiva, nemmeno allorché le parti risolvano con un contratto di transazione la controversia insorta in ordine al rapporto di lavoro, l’indagine del giudice del merito sulla natura retributiva o meno di determinate somme erogate al lavoratore dal datore di lavoro non trova alcun limite nel titolo formale di tali erogazioni e dunque neanche in presenza di una transazione intervenuta a seguito di lite giudiziaria (così Cass. n. 3685 del 2014) non può non rilevarsi come le censure di vizio di motivazione di cui al primo motivo scontino un inemendabile difetto di specificità, dal momento che i verbali di conciliazione sottoscritti tra le parti non sono stati trascritti in seno al ricorso né si è indicato il luogo (fascicolo processuale e/o di parte) in cui essi sarebbero reperibili”.
“Tenuto conto che all’uopo non possono soccorrere le indicazioni contenute nella memoria ex art. 378 c.p.c., avendo quest’ultima funzione meramente illustrativa dei motivi del ricorso e non essendo idonea a far venire meno un’eventuale loro causa di inammissibilità (giurisprudenza costante: v. tra le tante Cass. nn. 7260 del 2005, 7237 del 2006, 17603 del 2011, 26670 del 2014)”, la Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso e condannato la ricorrente Conti Editore alla rifusione delle spese del giudizio di legittimità liquidare in 11.200 euro di cui 11mila per compensi, oltre spese generali in misura pari al 15% e accessori di legge. (giornalistitalia.it)

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